L’Unione Europea (UE) guidata da Ursula von der Leyen sta perseguendo una strategia di diversificazione commerciale, con l’obiettivo di creare una nuova “globalizzazione felice” in versione europea. Una risposta che mira a mitigare gli impatti dei dazi statunitensi imposti da Donald Trump e a contrastare l’aggressività economica della Cina. Insomma, in Europa non si rassegnano all’idea di voler globalizzare il pianeta, come se non fosse già abbastanza evidente dove ci ha portato questo modello negli ultimi decenni.

UE – Accordi strategici e l’illusione del soft power

Uno dei punti chiave di questa nuova, e a mio avviso pessima, strategia è la conclusione dell’Unione Europea–Indonesia Comprehensive Economic Partnership Agreement, che punta a sbloccare il potenziale di un mercato di circa 286 milioni di abitanti con una crescita economica attorno al 5%. La Commissione Europea si prepara anche a lanciare nuovi negoziati con i Paesi firmatari del Partenariato Transpacifico (CPTPP). L’accordo con l’Indonesia è visto come un “game changer” perché rimuoverà il 98,5% dei dazi indonesiani sui prodotti europei, con un risparmio stimato di 600 milioni di euro per gli esportatori. I principali beneficiari? Automotive e agroalimentare, naturalmente.

Ma non è finita. L’UE punta anche a concludere un accordo di libero scambio con l’India entro la fine dell’anno, nonostante le evidenti riserve legate al sostegno indiano alla Russia. Intanto, i negoziati si stanno intensificando anche con Filippine, Thailandia, Malesia ed Emirati Arabi Uniti. L’obiettivo è evidente: stringere quanti più accordi commerciali possibili per rafforzare la propria influenza internazionale attraverso il cosiddetto soft power — in assenza, va detto, di un hard power credibile.

Globalizzazione anni ‘90, mentre l’Europa reale affonda

In sostanza, l’Unione Europea sta cercando disperatamente di ottenere un ruolo politico nello scenario internazionale che non è stata in grado di costruirsi negli ultimi 25 o 30 anni. E lo fa rincorrendo ancora il mito degli anni ‘90: quello della globalizzazione in cui tutti esportano e nessuno importa. Ma questo modello è fallito. Forse sarebbe più utile, invece, iniziare a occuparsi della domanda interna, cara Unione Europea. Magari di quei tanti milioni di cittadini europei che oggi non hanno più scuole, pensioni, sanità, ambiente. E che continuano a pagare il prezzo di un sogno globale che si è trasformato in un incubo locale.