Più cattivi e più disperati, così paiono gli uomini a un anno esatto dal cominciamento dell’epidemia legata al coronavirus. Parafrasando Camus, autore de “La peste”, con l’epidemia ciò che cambia realmente siamo soprattutto noi. Noi che stiamo ogni giorno di più perdendo quote della nostra umanità, noi che per paura di morire ci siamo convinti che rinunziare a vivere sia il bene più importante.
A molti di noi pare ormai quasi naturale, fisiologico, irrinunciabile portare sempre e comunque una mascherina che copra il volto e il sorriso, oltre che naturalmente trattare l’altro sempre e comunque come un virus rispetto al quale occorre immunizzarsi.

Se a un anno esatto dall’inizio di quella che doveva essere un’emergebza temporanea non avete ancora compreso che si tratta in realtà di una nuova normalità, di un preciso metodo di governo delle cose o delle persone, allora – lasciate che ve lo dica – siete decisamente irredimibili. Di più, siete gli schiavi ideali, quelli che amano le proprie catene e che anzi, ritengono che esse soltanto siano salvifiche.

Tutti coloro i quali appartengono alla mia generazione hanno indelebilmente scolpiti nella memoria i ricordi dei nonni che raccontavano loro di gesta più o meno eroiche dei tempi della guerra e della resistenza. Gesta che, certo, magari erano amplificate dalla narrazione, ma che comunque rimandavano sempre a un fondo di vita vissuta, di verità personale.
Quel che colpisce di quei ricordi e di quei racconti è, più di tutto, l’incondizionata disponibilità a sacrificare la vita. Una disponibilità non fine a se stessa, ma in nome di un bene maggiore di volta in volta identificato con la libertà, con la democrazia, con la Patria o, in non rari casi, con l’unione indissolubile di queste tre differenti determinazioni.

Ebbene, che cosa racconteremo noi a nostra volta ai nostri nipoti, allorché ci chiederanno del tempo in cui eravamo più o meno giovani?
Diremo loro, con orgoglio, che per paura di contagiare e di contagiarci abbiamo sacrificato ogni altro valore?
Racconteremo loro che per noi la salute, ossia la salvezza del corpo, valeva a rinunziare alla libertà?
Racconteremo fieri ai nostri nipoti che per sgominare un pericolosissimo virus dalla letalità dello 0,6% abbiamo messo in congedo tutte le libertà e le conquiste per le quali i nostri nonni avevano dato la vita?
Ancora, ci gonfieremo d’orgoglio nel narrare ai nostri nipoti che per combattere contro un nemico invisibile abbiamo cancellato i visibilissimi pilastri della nostra civiltà (dagli abbracci alle strette di mano, dalle relazioni sociali all’istruzione in presenza)?
Saremo davvero soddisfatti di noi, vi chiedo, nell’annunciare alle nuove generazioni prodezze eroiche come il lockdown e il coprifuoco, come i divieti di assembramento degni dei regimi e le delazioni innalzate a motivo di vanto?

Dobbiamo domandarcelo: saremo davvero fieri di noi nel raccontare il modo in cui ci stiamo comportando in questi mesi che ormai hanno, di fatto, segnato l’anno pieno?
Siamo davvero fieri della nostra umanità, o forse la stiamo perdendo indelebilmente?

RadioAttività, lampi del pensiero quotidiano – Con Diego Fusaro