Come ben sapete oggi ricorre la Giornata della Memoria, sicché occorre onorare questa giornata anzitutto valorizzando il concetto stesso di memoria, distinguendo la giusta memoria – che merita attenzione – dalla cattiva memoria che invece può essere fonte di rischi e pericoli.
Possiamo dire anzitutto che la memoria, nel caso specifico della giornata odierna, riguarda l’orrore dei campi di concentramento, e la funzione specifica di una buona memoria deve essere in questo caso ovviamente quella di ricordare il passato per apprendere la lezione ed evitare che esso torni a riprodursi. Adorno ben sintetizza questo concetto: “Che Auschwitz non si ripeta mai più“.

L’umanità ha da apprendere alla scuola della storia, che insegna ma non ha scolari. Ed è per questo che non ascoltando la lezione della storia siamo molto spesso condannati a riviverne gli orrori.
Ecco il compito fondamentale dunque: educare le nuove generazioni affinché esse apprendano ciò che vi è di grande nella storia e ciò che, come nel caso di Auschwitz, è invece orribile nella storia.

Bisogna altresì distinguere la giusta memoria dalla cattiva memoria.
Un esempio specifico di cattiva memoria è quello di chi guarda al passato non per ricordarlo, non per apprendere lezioni, non per evitare he gli errori e gli orrori si ripetano in futuro, ma semplicemente con uno sguardo apologetico rispetto al presente. Come dire “guardiamo agli orrori del passato per non vedere quelli che costellano il nostro presente”. O magari anche per giustificarli, quasi fossero di poco conto rispetto a errori e orrori del passato.
Questa è una visione apologetica e sbagliata della memoria. Anzi, se qualcosa abbiamo appreso dalla vicenda dolorosa e che ancora fa sanguinare le coscienze di Auschwitz, è proprio che il male torna a ripetersi e che lo fa talvolta in forme invisibili: questo è quello che vediamo nel nostro presente, dove la violenza non è rimasta affatto sepolta ad Auschwitz.
Al contrario, Auschwitz che è forse una delle violenze estreme del Novecento, anche se non la sola, sicuramente deve educarci a vedere la violenza intorno a noi. Anche dove apparentemente non risulti visibile.

L’altra grande questione che apprendiamo dai reticoli di quel filo spinato è proprio che là ha trionfato il male non perché non vi era la ragione, ma perché vi era semmai una ipertrofia di una specifica forma di ragione.
Per dirla con Adorno e Horkeimer in “Dialettica dell’Illuminismo”, “è sotto i gelidi raggi di una ragione strumentale che risplende in una nuova forma di barbarie“: è la ragione strumentale che genera i reticoli di Auschwitz, non l’assenza di ragione.
Più precisamente possiamo dire che la ragione tecnica, scientifica, strumentale, priva dei riferimenti alla cultura e ai valori, produce l’abominio dei campi di sterminio. Che sono, per così dire, la quintessenza della ragione tecnica: è il non plus ultra della razionalità tecnica dello sterminio, con attenzione scientifica alle modalità, all’operatività, al programma di sterminio degli esseri umani.

Come bene ha detto Agamben, in Auschwitz troviamo “il campo perfetto della biopolitica” e della capacità di uccidere la nuda vita.
Ad Auschwitz, dirà Hannah Arendt, “abbiamo visto un inferno creato dall’uomo“. Ecco cosa dobbiamo apprendere: che non si verifichi mai più quell’inferno.
E dobbiamo altresì apprendere a vedere gli inferni quotidiani che spesso, silenziosamente, crescono intorno a noi, e che si presentano magari anche a fin di bene, o essi stessi come “il bene”.

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