Il circo mediatico e il clero giornalistico si muovono a banchi, come i pesci. E sempre seguono le correnti del politicamente corretto, che è immancabilmente un globalcapitalisticamente corretto.

Forniscono i quadri ideologici, narrativi e superstrutturali al rapporto di forza dominante. E avvalorano la nota tesi di Carlo Marx: le idee che risultano dominanti sono, puntualmente, quelle della classe dominante. Siffatte idee non sono altro che il dominio dei dominanti visto sub specie mentis, dal punto di vista delle idee.

Così si spiega, credo, il titolo che recava la trasmissione “Otto e Mezzo”, fedele grancassa del globalismo, dei rapporti di forza dominanti e dell’ortopedizzazione delle plebi italiche in senso cosmopolita e liberista: “la sindrome dell’apertura”.

Ebbene sì, la sindrome è voler tornare alla normalità, voler uscire da questo incubo che, l’abbiamo capito, qualcuno vorrebbe durasse sine die.

Perché, è evidente, e lo ribadiremo ad nauseam, al potere giova l’emergenza: lo rende più forte, se si considera che, grazie al virus, siamo tutti in casa, non v’è opposizione e tutti sono disposti a rinunciare anche alle più elementari libertà pur di fare salva la nuda vita.

Come nella camera oscura che evocava Marx, l’ideologia rovescia il mondo capovolto e lo fa apparire falsamente vero. E, così, per intenderci, la sindrome, secondo la narrazione giornalistica, è di quei pazzi che vogliono riaprire, tornare a vivere, lavorare e uscire dagli arresti domiciliari. Immune e normale, per converso, sarebbe chi accettasse la reclusione sine die, affidando anima e corpo alla tribù dei virologi televisivi e dei tecnici delle task forces rigorosamente non eletti.

Quelli, per inciso, che fino a febbraio dicevano che non v’era alcun pericolo e ora dicono che non si tornerà mai più alla normale. Che nulla sarà più come prima. Che col virus dovremo imparare a convivere. E che i rapporti di forza – abituatevi pure – sono riplasmati irreversibilmente: reclusione, niente spazio pubblico, niente assemblee, e soprattutto niente proteste.

Uno stato di polizia quale in parte già è: in nome dell’emergenza, certo. Che, appunto, si protrarrà chissà fino a quando… Fino al 2025 potrebbe durare, dicono gli esperti di Harvard. E perché non per sempre?

Guai a chi osi dissentire e provare a percorrere la funesta via di narrazioni alternative, non allineate.

“Le notizie sono una cosa seria: fidati dei professionisti dell’informazione”: così ripete il nuovo orwelliano grande fratello, lo stesso, peraltro, che oggi diceva impunemente che per il Coronavirus “è morto Louis Sepulveda, autore di Cent’anni di Solitudine”. Vi sarebbe da ridere, se non vi fosse da piangere.

RadioAttività, lampi del pensiero quotidiano – Con Diego Fusaro


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