Senza dubbio una delle canzoni più liberatorie di Ligabue. La riascoltavo questa mattina in macchina, mentre percorrevo la solita strada verso la redazione. Di lì a poco avrei dovuto intervistare Ilaria Cucchi. La musica si sa, spesso fa l’effetto della Madeleine di Proust. E allora come il narratore di Alla ricerca del tempo perduto, ho chiesto alla mia memoria di tornare a quasi 10 anni fa, quando per la prima volta ho incontrato questo scricciolo di donna nel suo piccolo ufficio al piano terra alla periferia di Roma.

Nello stesso fabbricato, qualche piano sopra, c’è la casa di famiglia di Ilaria e Stefano. Stefano era morto però il 22 ottobre del 2009. Gli occhi di Ilaria cercarono da subito la verità celata dietro quel corpo che non poteva più parlare, ma che bastava solo guardarlo bene, per capire cosa volesse raccontarti della notte del suo arresto. E di quella notte oggi, dopo 10 anni di battaglie, esiste finalmente anche una testimonianza dettagliata, resa in aula dal vicebrigadiere Tedesco: “Schiaffi, spinte e calci in faccia. Così i miei colleghi lo picchiarono”.

Quante volte Ilaria hai dovuto ingoiarlo il veleno, invece di sputarlo fuori?

Tante… Ho ingoiato bocconi amari, ho subito umiliazioni, mi sono sentita impotente, ma anche in colpa nei confronti dei miei genitori, ai quali a volte ho imposto questa battaglia di civiltà. Ma tutto questo aveva un senso ed ho avuto ragione.

Qual è stato il momento più delicato in questi 10 anni?

La sentenza di secondo grado del primo processo, quando vennero tutti assolti. Alla fine dell’udienza guardai Fabio Anselmo, mio avvocato e da qualche anno anche mio compagno, e gli dissi “Abbiamo vinto, abbiamo vinto”. Lui pensò di essersi giocato la cliente e invece, io avevo capito che paradossalmente quello era l’inizio di tutto. Avevo intuito che in quell’aula non si era celebrata la nostra sconfitta, ma la sconfitta della giustizia che aveva mostrato tutti i suoi limite e tutte le sue lacune.

Sola contro tutti. Da sempre e controcorrente…

Sì, come quando scelsi di mostrare le foto del corpo martoriato di mio fratello. Mia madre era contraria, mi diceva “Stefano non avrebbe voluto farsi vedere così”. Ma le foto resero evidente a tutti quello che io, da sorella, avevo ben impresso negli occhi, nella mente e nel cuore. In quella conferenza stampa, davanti a decine e decine di giornalisti, avvenne la svolta.
L’opinione pubblica iniziava ad interessarsi alla morte di Stefano in maniera diversa.

Qualche giorno fa, il Vicebrigadiere Tedesco ha reso in aula la sua testimonianza. Quella che tu aspettavi di ascoltare da anni. A mente fredda, cosa ti senti di dire?

Che non devo cambiare opinione su di lui e sui suoi lunghi silenzi. Non giustifico, ma posso comprendere la paura. Oggi però mi sento di dire che c’è un’aria nuova, anche grazie alla parole del generale dell’Arma Nistri.
La lettera doveva restare una cosa privata, una cosa mia e dei miei genitori. Poi per caso la stampa ne è venuta a conoscenza.
Quella lettera mi toglie di dosso l’etichetta peggiore che mi hanno cucito in questi 10 anni: essere una che lotta contro le forze dell’ordine. E invece…

Che donna sei oggi? Chi ti senti di ringraziare, chi ti ha capita di più?

Sono una donna con consapevolezze diverse. Da madre ho saputo trasformare il senso di colpa per aver spesso lasciato i miei figli, in un’opportunità. L’opportunità di elaborare il lutto per la perdita dello zio, mostrando come si lotta in una battaglia di civiltà. Chi devo ringraziare? Più di tutti Fabio Anselmo. Lo dico col cuore, il merito ce l’ha lui. Sì, io sono forte, ma lui ci ha sempre creduto.

Prossimo obiettivo che urleresti contro il cielo?

Dritti verso la verità, verso la giustizia. Senza fare sconti a nessuno.

Lulu