Netflix, Spotify, il Play Store e anche Just Eat: sono contenitori che raccolgono cose che ci interessano e che facilitano la nostra vita dividendo tutto per categorie. Per loro “natura” non prevedono la possibilità di interagire direttamente con altri utenti, ciononostante la mania dilagante di condividere contenuti tipica dei Social Network è riuscita a varcare la soglia anche di queste piattaforme. Ci dicono essere una malattia del nostro tempo, che ne siamo ossessionati, ma… ne siamo sicuri?

Ne abbiamo parlato con il Sociologo dei Media Digitali Davide Bennato: “Ossessione? No… più che altro è una tendenza culturale ed era già presente nei media tradizionali – spiega – i social hanno solo accorciato il tempo tra consumo e condivisione”. Una volta, cioè, il momento in cui si “consumava” una canzone alla radio e il momento di condivisione con qualcun altro erano separati dal tempo necessario a registrare sulla cassetta, scriverci il titolo, impacchettarla e consegnarla fisicamente alla persona con cui condividerla (procedimento che per chi ci è passato è un ricordo tra il piacevole e il frustrante proprio perché non riusciva mai in modo così “fortunatamente” lineare). Adesso, invece, il momento di condivisione si èinglobato all’interno dello stesso processo di fruizione: ovvero già durante l’ascolto si può mandare il link all’altra persona e si può sentire insieme il pezzo pur trovandosi in spazi fisicamente diversi.

Siamo solo diventati meno romantici allora? “Nel Piccolo Principe – commenta Davide Bennatoleggiamo che è il tempo perduto per la rosa a fare della rosa qualcosa di importate. Certamente non puoi essere romantico condividendo con un click un contenuto già pronto, però condividere una playlist che hai creato con cura su Spotify significa che gli hai dedicato del tempo. La dimensione creativa, insomma, rimane”.

La strategia quindi è rimasta la stessa, i Social però l’hanno radicalizzata al punto che abbiamo reso “social” più o meno tutto. Ogni piattaforma esistente, comprese quelle che il tasto share non lo hanno neanche previsto, ha infatti una fanpage attraverso la quale è possibile interagire in qualsiasi momento. Per alcuni questo è sintomo della degenerazione cronica del nostro tempo e le piattaforme da geniali diventano “infernali”. La serie TV di Netflix “Black Mirror” fa di questo problema il suo focus principale: “La serie ci mette di fronte a noi stessi – spiega il Sociologo e curatore della raccolta di saggi “Black Mirror. Distopia e antropologia digitale” – e ci mostra che la tecnologia dà delle opportunità, in alcuni contesti sono opportunità positive, in altri sono negative. Il problema è solo che noi non siamo capaci di averci a che fare. Diceva Melvin Kranzberg che la tecnologia non è né buona, né cattiva, né neutrale, e in effetti possiamo dire che è una forma di potere. Noi sostanzialmente siamo incapaci, ogni volta che abbiamo un potere nelle nostre mani non sappiamo mai come trattarlo”.

Ma perché “nonostante tutto” queste piattaforme ci piacciono comunque così tanto? “Perché sono molto utili per raccogliere contenuti diversi – chiarisce il Sociologo Davide Bennatoe perché questi contenuti ce li forniscono nei modi a cui ormai siamo maggiormente abituati. Cioè in maniera asincrona, dato che possiamo averli quando vogliamo; e in maniera distribuita, perché possiamo utilizzare piattaforme diverse tra telefonini, computer, tablet e quantaltro”.

Alcune considerazioni, infine, lasciano un che di positivo: a differenza di come si pensi proprio piattaforme come Netflix e Spotify ci portano a un maggiore contatto con la realtà. Basti pensare a tutte le volte che Playlist e Serie TV diventano argomento di discussione alle cene o, addirittura, al fatto che si scelga di incontrarsi proprio con lo scopo di usufruirne tutti insieme.

Benedetta Intelisano