Nei mesi scorsi due appuntamenti hanno segnato l’agenda internazionale: il vertice in Alaska tra Russia e Stati Uniti e, a seguire, l’incontro di Washington tra la leadership americana e quella ucraina. In Alaska, la prima occasione di confronto diretto dopo mesi di tensioni, la delegazione di Mosca aveva messo in evidenza la distanza sui temi strategici ma i toni sono stati concilianti.

A Washington, invece, gli Stati Uniti hanno ricevuto Kiev e i vertici europei, aprendo ulteriori canali di cooperazione in materia militare ed economica, ma senza schiudere spiragli immediati per una trattativa diretta con Mosca. In entrambe le sedi, più che un avvicinamento si è registrato, anche se le premesse per un incontro tra Putin e Zelensky appaiono ancora allo stato brado.

E’ qui che giocano le abilità diplomatiche, ma anche l’informazione: “Putin avrebbe insistito su summit con Zelensky”, riferiva Sky nella mattina tra il 19 e il 20 agosto.
Vale la pena soffermarsi innanzitutto sulla struttura linguistica di questo annuncio, poggiato sul condizionale. È il segno di una prassi giornalistica che, pur legittimata dall’urgenza di aggiornare continuamente il pubblico, produce titoli sospesi: affermazioni che non sono realmente fatti, ma ipotesi raccontate come se fossero già notizie. Il condizionale diventa così uno strumento che dà visibilità a ciò che non è verificato, creando un cortocircuito logico. La notizia rimane incerta, ma il titolo — il luogo più esposto della comunicazione — imprime ugualmente un messaggio che rischia di modellare la percezione del lettore.

L’idea di un Putin pronto a insistere per un incontro diretto con Zelensky dà un preciso sottotesto ai fatti che, prima di passare per la stampa, sono neutri: non più il leader irremovibile che detiene l’iniziativa, ma una figura esposta, quasi costretta a inseguire l’interlocutore. Se questa dinamica fosse autentica, segnerebbe una svolta nella percezione dei rapporti di forza, mostrando Mosca in una posizione di maggiore fragilità. Eppure, allo stato dei fatti, nessun elemento concreto conferma simili movimenti. La diplomazia russa non ha lasciato intendere aperture di questa natura, né gli atti ufficiali offrono tracce di un pressing personale del Cremlino verso Kiev. Ciò che resta, quindi, è un frame narrativo più che un dato sostanziale, una proiezione che nel vuoto delle verifiche rischia di alterare la comprensione del quadro geopolitico.

Ed è proprio su questo scarto — tra l’uso del condizionale e la solidità dei fatti — che si misura oggi la responsabilità dell’informazione: “Si tratta di un titolo da wishful thinking”, fa notare Alberto Contri.
Per l’esperto in comunicazione sociale: “La prassi è sempre più quella di confondere la propria interpretazione dei fatti con le notizie”, e di esempi ce ne sarebbero a bizzeffe.
Ascoltate l’intervento a ‘Un Giorno Speciale’.