Il passaggio lampo dal Covid alla guerra ha spinto i più a levare di dosso i camici bianchi da virologo e indossare la toga di professori esperti in geopolitica e questioni internazionali. Il meccanismo sembra ripetersi: i veri intenditori vengono subito ostracizzati se si discostano dal pensiero della vulgata massima, mentre i meno accreditati vengono accolti come voci inequivocabili. Una dinamica di cui è stato vittima il professor Alessandro Orsini, direttore dell’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della LUISS, già Research Affiliate al MIT di Boston e molte altre qualifiche. Per le sue posizioni critiche nei confronti della condotta della guerra da parte dell’Occidente, Orsini è stato tacciato di filo-putinismo e amenità varie. Ma già nel 2018, audito dalla Commissione Affari esteri del Senato sul futuro delle relazioni tra Italia e Russia, aveva avvertito circa le mosse di Putin, le sanzioni e le scelte del nostro Paese.

“Egregio Presidente della Commissione Affari Esteri, Onorevoli Senatori, il tema che sono chiamato ad affrontare riguarda il futuro delle relazioni tra la Federazione Russa e l’Italia. Prima di affrontare le questioni future, dobbiamo interrogarci sul passato dei rapporti tra Mosca e Roma, che è uguale al presente. Intendo dire che l’atteggiamento strategico dell’Italia non è cambiato, nonostante i cambiamenti di governo e quelli internazionali. L’Italia ha ottimi rapporti con gli Stati Uniti. L’incontro tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e Donald Trump, il 30 luglio 2018 alla Casa Bianca, e il contenuto di quei colloqui, hanno confermato che l’Italia, nel presente come nel passato, cammina al fianco degli Stati Uniti, anche quando accade a detrimento delle proprie imprese. Il riferimento è alle sanzioni contro la Russia e l’Iran.

Tuttavia, l’Italia è il Paese che, all’interno della coalizione a guida americana, intrattiene i rapporti migliori con la Russia, ribaditi dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nella visita a Mosca su invito di Vladimir Putin, l’11 aprile 2017. Mattarella ha detto che l’amicizia con la Russia è “molto forte” e che la Russia è un “partner strategico” dell’Italia. Le parole testuali di Mattarella svelano la propensione strategica dell’Italia verso la Russia in seno all’alleanza occidentale: “Noi ci adoperiamo – ha detto – perché ci si renda conto da ogni parte che l’interesse comune supera le difficoltà. Per noi la Russia è un partner strategico e speriamo che i nostri rapporti possano ulteriormente crescere anche al di là del settore energetico così importante”.

Traducendo il linguaggio diplomatico nel linguaggio dell’uomo comune, significa che l’Italia aderisce alle sanzioni contro la Russia, tutte le volte che gli Stati Uniti decidono di imporle, ma, un istante dopo la loro introduzione, opera affinché vengano ritirate o affievolite. È la stessa linea politica del governo italiano in carica. Vale la pena ricordare che il ministro dell’Interno Matteo Salvini, in un’intervista alla tv russa “Rossija 24”, trasmessa lunedì 25 giugno 2018, aveva lasciato intendere di voler imporre il veto sulle sanzioni dell’Unione Europea contro la Russia, ricevendo le lodi dal ministero degli Esteri russo, per bocca della sua portavoce, Maria Zakharova. Salvini ha rinnovato la propria posizione il 17 ottobre scorso, con grande enfasi del “Guardian”, che ha ricordato come l’Italia sia l’unico Paese dell’Unione Europea a pensare di porre il veto sul rinnovo delle sanzioni contro la Russia.

Credo di poter riassumere la propensione strategica dell’Italia verso la Russia con questa formula: legata agli Stati Uniti, protesa verso la Russia. La domanda, e vengo al futuro, è se la strategia dell’Italia avrà successo ovvero se riuscirà a ottenere il ritiro delle sanzioni per beneficare la propria economia. La mia risposta è legata alla mia premessa e cioè che il futuro delle relazioni dell’Italia con la Russia dipendono, in misura preponderante, dalle relazioni tra Stati Uniti e Russia, molto più che dalle relazioni tra Unione Europea e Russia. Intendo dire che, sotto il profilo strategico, per una serie di ragioni che non posso approfondire in questa sede per motivi di sintesi, una rottura tra l’Italia e gli Stati Uniti sulla Russia sarebbe peggiore di una rottura tra l’Italia e l’Unione Europea.

Dal momento che le rotture peggiori in ambito internazionale sono le rotture causate dalle guerre tra gli Stati, è alla possibilità della guerra con la Russia che dobbiamo volgere il nostro sguardo. I fronti di possibile scontro tra Stati Uniti e la Russia, fino a qualche mese fa, erano tre: Siria, Corea del Nord e Ucraina. Nel momento in cui parlo a questa autorevole Commissione, mi sembra che l’unico fronte davvero pericoloso sia quello ucraino. Trump ha di fatto consegnato la Siria a Putin, dopo avere preso atto che i rapporti di forza sono enormemente sbilanciati in favore della Russia, dell’Iran e delle milizie sciite di Hezbollah. Quanto alla Corea del Nord, che confina con la Russia, Trump sembra avere compreso che non può fare altro che piegarsi a Kim Jong-un, il quale ha potuto terminare indisturbato il programma nucleare. La decisione di Trump di incontrare il dittatore della Corea del Nord a Singapore, il 12 giugno 2018, non è altro che il passaggio da una politica di deterrenza nucleare, che si applica ai Paesi che vorrebbero costruire la bomba atomica, a una politica di contenimento, che si applica ai Paesi che l’hanno ormai costruita.

Resta l’Ucraina, dove pochi giorni fa, i russi hanno sparato contro alcune navi di Kiev e sequestrato 24 soldati. Direi che l’evoluzione dei rapporti tra Italia e Russia dipende dalla possibilità di una guerra estesa (una guerra “silenziosa” è in corso dal 2014) tra Mosca e Kiev. Se Putin deciderà di sfondare le linee ucraine, l’Italia si troverà costretta a doversi schierare. Il che metterebbe a repentaglio la condotta migliore per preservare l’interesse nazionale, che si riassume nella formula “legati agli Stati Uniti, protesi verso la Russia”. Affinché questa propensione strategica possa dare i frutti migliori è necessario che non scoppi una guerra aperta ed estesa tra la Russia e quella parte dell’Ucraina che gode della protezione degli Stati Uniti e dell’Unione Europea.

Siccome la guerra è il fenomeno politico dotato del maggiore potere di trasformazione delle relazioni internazionali, ne consegue, illustri Senatori, che la domanda che mi ponete sui rapporti futuri tra l’Italia e la Federazione Russa si trasforma nella domanda: “Che cosa Putin intende fare in Ucraina?”. Si confrontano due tesi. Una afferma che Putin intende attaccare; l’altra afferma che non intende farlo.

La mia tesi è diversa. Sostengo che, in questo momento, Putin non ha ancora definito una strategia precisa ed è in una fase in cui sta cercando di raccogliere informazioni sulle intenzioni del blocco occidentale. Noi ci chiediamo che cosa Putin voglia fare in Ucraina, mentre Putin si sta domandando che cosa intendiamo fare noi. Il recente scontro nello stretto di Kerch è stato della massima importanza per il capo del Cremlino. Direi che gli ha fornito tre informazioni fondamentali.

In primo luogo, Donald Trump si è rifiutato, per giorni, di condannare l’azione russa e di annullare il vertice che aveva annunciato con Putin durante il G20 di Buenos Aires del 30 novembre 2018. La condanna e l’annullamento del vertice da parte del presidente americano sono giunti, ma troppo tardi. Un ritardo necessario a far comprendere a Putin che Trump gli è favorevole, tant’è vero che i due si sono ugualmente incontrati a Buenos Aires, anche se non in forma solenne. D’altronde, Trump ha sempre dichiarato di voler essere amico di Putin e di essere incline a fargli molte concessioni per sugellare tale amicizia. Gli è stato impedito da ampi settori del partito repubblicano e dall’opinione pubblica prevalente negli Stati Uniti, che si esprime attraverso l’opposizione virulenta del “New York Times”, del “Washington Post” e della CNN. Quanto mai significativi, a titolo d’esempio, sono gli editoriali durissimi di Max Boot, il quale accusa Trump di essere forte con i migranti, che sono la radice dell’America, e debole con i dittatori, che rappresentano la sua negazione. È utile ricordare che il governo americano avvisò quello russo prima di lanciare i missili su Homs e Damasco, rispettivamente il 7 aprile 2017 e il 14 aprile 2018, affinché i soldati russi fossero sottratti a ogni pericolo, e che, in occasione del G7 in Canada, l’8 giugno 2018, Trump ha chiesto che Putin fosse nuovamente accolto in quel consesso internazionale, dal quale continua a essere escluso per avere invaso la Crimea nel 2014. Ha poi voluto incontrare Putin a porte chiuse, il 16 luglio 2018 a Helsinki. Come dire: se non posso incontrarlo al G7, lo incontro e basta.

La seconda informazione che Putin ha ricavato dallo scontro nello stretto di Kerch riguarda la posizione dell’Unione Europea. Angela Merkel ha dichiarato che non esiste una soluzione militare al conflitto in Ucraina. Nel linguaggio diplomatico, significa che nessun Paese europeo è disposto a sparare sui soldati russi per difendere gli ucraini, proprio come Trump. Di più: la Merkel si è detta molto infastidita che Petro Poroshenko, il presidente dell’Ucraina, abbia chiesto l’intervento della Nato. Chiarisce bene che l’Unione Europea non vuole sentir parlare, nemmeno lontanamente, di una guerra con la Russia.

La terza informazione annotata da Putin riguarda la capacità di fuoco degli ucraini, che ha dimostrato di essere praticamente nulla. Putin aveva bisogno di questo “test” per comprendere se gli ucraini abbiano migliorato le proprie capacità offensive ed, eventualmente, se siano stati riforniti di armi sofisticate dagli Stati Uniti e, dettaglio non irrilevante, se siano in grado di utilizzarle.

Per comprendere ciò che Putin vuole fare a Poroshenko, occorre sapere ciò che Reagan fece a Gheddafi, il 14 aprile 1986: gli fece male, bombardandolo a Tripoli per saggiare la sua capacità di reazione. Il mondo rimase impressionato quando Gheddafi, la cui residenza fu distrutta nel tentativo di ucciderlo, si recò davanti alle macerie della caserma di Bab al-Aziziyya e, anziché reagire, si mise a pregare. Disse: “Accetto il destino che Dio mi ha riservato”. Ciò che è passata alla storia come la sua “reazione” ebbe l’aspetto di una depressione: sparò due missili contro Lampedusa, mancando il bersaglio, nonostante fosse a pochi chilometri dalle coste libiche. A partire da quel momento, Gheddafi divenne un ostaggio dell’Occidente, così come Poroshenko, dopo lo scontro di Kerch, rischia di diventare un ostaggio di Putin.

E qui vengo al problema delle sanzioni contro la Russia. Dal momento che Trump e l’Unione Europea non vogliono un confronto militare con Putin, devono operare affinché non sia Putin a scatenarlo. L’unica strategia possibile sembra essere quella delle sanzioni. Nella prospettiva delle élites europee dominanti, l’impoverimento della Russia comporta due conseguenze prevedibili.

La prima è che la Russia ha meno soldi da investire negli armamenti e questo, almeno nella prospettiva occidentale, dovrebbe rappresentare un disincentivo a lanciare un attacco su ampia scala che comporterebbe una nuova ondata di sanzioni.

La seconda è che, anche nel caso in cui Putin decidesse di sfondare le linee ucraine, si prevede che, impoverito, avrebbe difficoltà a condurre una guerra di lungo periodo o una politica di occupazione a causa dell’impoverimento dovuto alle sanzioni.

In conclusione, la mia previsione è che le forze politiche italiane, che operano per porre fine alle sanzioni contro la Russia, sono destinate a rimanere deluse nel futuro prossimo. In questa fase storica, l’idea che prevale tra le élites europee è che le sanzioni siano lo strumento migliore per frenare l’impeto di Putin ed evitare un’ondata di sanzioni ancora peggiore”.