La vicenda Coronavirus rappresenta un pochino lo specchio della nostra economia. 

Non vi è dubbio che il virus sia nato in Cina e che li si sia sviluppato. 

Non mi sono mai permesso di inoltrarmi nel campo sanitario perché lo lascio fare a chi ha specifiche competenze in materia, ma considerazioni di natura giuridica economica se ne possono fare. 

L’Italia nel corso degli anni ha pian piano trasferito le proprie fabbriche altrove. Dove la manodopera costasse meno, dove peraltro ci fosse una maggiore prossimità alle materie prime, dove ci fosse un regime fiscale meno pressante del nostro e soprattutto dove ci fosse una burocrazia meno impervia e paludosa. 

Venne pian piano smantellata tutta la manifatturiera nazionale, come del resto il più grande impero europeo di imprese nate sotto l’egida della ricostruzione (IRI), a cui seguiva il privato, costituito allora, di una miriade di piccole e medie imprese, che ne formavano l’indotto. 

Si parlò di deindustrializzazione o più credibilmente di delocalizzazione degli impianti produttivi. 

In parte lo fecero anche i tedeschi, molto meno di noi ed in maniera diversa. 

Preferirono investire nei paesi dell’area balcanica, aprendogli però le porte dell’Europa mantenendo così ben salde nel proprio territorio: le strutture di ricerca e progresso tecnologico, la catena di comando, in alcuni casi l’assemblaggio od il perfezionamento del prodotto nella sua versione finale, quasi sempre, conservato in magazzini teutonici consentendo alla Germania (come del resto all’Olanda ed ai loro alleati baltici) di aver il surplus (proventi dall’export) tra i più alti del pianeta. 

Anche la Germania è andata in Cina ma in maniera più ragionata e pianificata, ossia soltanto laddove il proprio apparato produttivo evidenziasse una marcata antieconomicita’ nel realizzare un determinato prodotto. 

Oggi per noi persino la produzione di un manufatto semplice e’ diventato un problema, siamo totalmente succubi del vecchio Impero d’Oriente. 

È vero che manteniamo parte della logistica, parte della distribuzione e realizziamo ancora prodotti molto raffinati. 

Ma la nostra economia purtroppo oggi entra in difficoltà pure se deve produrre una mascherina. 

Il coronavirus ha soltanto rinviato i problemi che lì sono e lì son rimasti, anzi, ulteriormente aggravati da uno stallo coatto del nostro sistema produttivo determinato dalla necessità di ridurre il contagio. 

Non è che il coronavirus cancella la necessità di una drastica riduzione della burocrazia, di una riduzione del cuneo fiscale o della pressione fiscale, ovvero della cessazione di ogni regalia, o della individuazione degli sprechi per la rinascita di una economia reale non necessariamente dipendente dalle multinazionali della logistica e della comunicazione social.  

Sarebbe importante laddove possibile riportare tutta la filiera produttiva sul territorio nazionale. 

Come del resto accadeva nel periodo del boom economico e comunque fino all’inizio degli anni novanta. 

Basta sovrapporre la cartina dei contagi con quella economica per vedere che il quadrilatero lombardo dal Pavese al Bergamasco è quello più colpito, quello che più di ogni altro è stato costretto a delocalizzare in Cina e purtroppo proprio nelle aree in cui il contagio ripetuto e persistente avveniva con il Virus madre. 

Il virus non si è sviluppato dove c’è la presenza massiva della comunità cinese che magari non torna in patria da anni, ma dove ci sono imprenditori costretti a stare in Cina una settimana al mese. 

Vi siete chiesti perché alcune aree con una filiera ancora tutta in Italia (come nell’agroalimentare) sia stata meno colpita dal fenomeno, come del resto dove c’è ancora l’asse produttivo delle ultime grandi imprese, per non parlare del sud Italia la cui economia ed il cui sviluppo e’ stato totalmente abbandonato a se stesso, salvo le consuete chiacchiere della politica ad inizio di ogni governo, per poi non fare nulla. 

Oggi i comunicati sul coronavirus li fanno i tecnici, la cura la praticano i sanitari e la politica è demandata agli epidemiologi. 

Ed i politici? 

Richiamano il Paese all’unità, mentre licenziano provvedimenti che invitano all’isolamento. 

Anche perché giustamente uniti ci si contagia. 

Se la prendono con il Premier britannico perché avrebbe detto che loro perderanno parecchi cari. 

Sarà stato sgraziato, troppo diretto ma di fatto a detto la verità, dopotutto purtroppo è quello che sta accadendo nel nord d’Italia. 

Il Regno Unito ha deciso di uscire dall’Europa, è un po’ come colui che lascia il posto pubblico, perché annoiato ed irrealizzato, ma nel momento in cui diventa autonomo mangia se produce, altrimenti crepa.

Il Regno Unito non ha il nostro sistema sanitario nazionale che nonostante le picconate che ha subito negli ultimi vent’anni ancora regge. 

E poi il popolo inglese è più abituato a ricevere dal politico una triste verità piuttosto che la solita menzogna.

Oggi si vince con le idee chiare, non con gli slogan. 

Uniti si vince! 

Si vince se in fase acuta il sistema sarà in grado di offrirti un posto letto, dei sanitari e le apparecchiature necessarie a sostenerti.

Scusate la franchezza ma mi sento sempre un uomo di stato, che se critica il sistema è per migliorarlo e liberarlo dal nulla, giammai per offenderlo. 

Dalla mia “cella”, nel rispetto rigido di ogni prescrizione provenga dall’Autorità, mando a tutti, davvero di tutto cuore, un caloroso abbraccio.

Enrico Michetti