Ci sarà sempre un critico letterario, o più d’uno probabilmente, pronto a storcere il naso e a sentirsi in dovere di mettere in guardia il pubblico dei lettori da quegli autori che piacciono a tutti, o quasi; che vendono tanto, che sono letti ovunque. Come se dietro il successo di pubblico, per uno scrittore, debba sempre esserci qualcosa di sospetto, di troppo facile: vizio non ancora debellato della nostra élite (o presunta tale) culturale.

Con Andrea Camilleri non potranno permetterselo, anche se ci proveranno, come qualcuno starà già facendo, in maniera maldestra. Perché non ha scritto mai una sola storia per intercettare il successo; non ne ha avuto bisogno: ha raccontato uomini, luoghi e vicende, immaginarie sempre fino a un certo punto, con il piglio di chi non può fare a meno di comunicare agli altri come continuano ad apparirgli il mondo e i suoi cambiamenti. È la caratteristica dei veri scrittori, celebri o meno che siano.

La Sicilia, come luogo dell’anima, condizione esistenziale, prospettiva non solo geografica dalla quale inquadrare il resto del mondo, inteso come umanità, con tutte le sue contraddizioni. È la “sicilitudine”, una questione quasi metafisica, quella costruzione intellettuale così sofisticata nelle pagine di Sciascia, quasi sempre enigmatica in quelle di Pirandello. Camilleri l’ha tradotta a beneficio di tutti i lettori; forse per questo più di un critico letterario ha diffidato della sua opera. È forse il merito principale di un uomo che ha orgogliosamente rivendicato ogni aspetto ammaliante e al tempo stesso ogni dolorosa contraddizione della sua terra, rendendone partecipe anche chi non vi ha mai messo piede.

In questo senso, è bene sottolinearlo, il personaggio fortunatissimo di Montalbano è solo una delle facce di un prisma composto da modi di dire, riflessioni popolari, schemi di pensiero improntati a una secolare diffidenza, orgoglio e riservatezza levantini, un’araba imperturbabilità di fronte ai rovesci della vita, una lussureggiante e multietnica tradizione culinaria.

Lo sguardo di un uomo su un mondo, espresso anche attraverso un solo paese, l’Italia di oggi, sempre più alla deriva: minato nei capisaldi della sua moralità, dalla polverizzazione di un sistema di valori sempre più sacrificato sull’altare delle convenienze, economiche e non. E al tempo stesso, sussurrata a tratti, una speranza di salvezza, da ricercare sempre nell’uomo stesso, fosse anche un solo individuo, fosse anche il commissario di polizia dell’immaginaria e al tempo stesso verosimile cittadina di Vigàta.

Tutta l’umanità di cui è stato capace, è ancora lì, nei ghirigori di righe profondamente semplici, o semplicemente profonde, tra un morto ammazzato, un riso al nero di seppia (o di siccia) e una storia d’amore da tenere segreta. Sempre sul confine di un dialetto che non sa mentire e che tutti, magicamente, i lettori hanno sempre compreso, da Trento a Lampedusa. 

Perché un vero maestro, senza mai avere la presunzione di essere tale, parla per tutti.