Se ne parla spesso, dell’addio di Alessandro Del Piero alla Juventus, quella Vecchia Signora che lui, cavaliere non avrebbe lasciato mai. Si mormora sovente di come Francesco Totti sia stato trattato nel suo ultimo anno (prodigioso anche quello) da imperatore in campo. Si parla spesso, rassegnati, dell’addio in massa di Inzaghi, Gattuso, Hamsik, Gerrard, Zanetti , Maldini e quant’altro al calcio giocato: spesso per continuare a stupire in altre mete e fare gli ambasciatori del calcio in luoghi lontani, quel calcio dittatore che li ha malmenati poco prima trattandoli come semplici sudditi, come suoi sottomessi.

Sembrerebbe a prima vista un tema molto da Bar Sport, intriso di banalità e pieno di retorica e poetica, e non è detto che non sia così, perché una volta tanto anche le chiacchiere da bar affrontano temi importanti, ma la verità è ben meno romantica, ben poco poetica.
Svincoliamo il discorso da quanti milioni i calciatori sopracitati abbiano guadagnato, non parliamo di compenso; lasciamo da parte quanto siano rimasti in buoni rapporti con le dirigenze che li hanno costretti al saluto, perché questa è la normalità.

Le dirigenze come proprietari di fabbrica

Ciò su cui invece vogliamo riflettere è perché siano stati fatti ingerire alle folle sognanti questi addii amari, repentini, forzati che hanno lasciato il nostro calcio orfano dei suoi maestri.
E’ necessaria innanzitutto una premessa: pochi di loro volevano quel commiato, ma nessuno lo ammetterà, vuoi per lealtà nei confronti della propria squadra che tanto gli ha dato, vuoi per il politicamente corretto che si sta impossessando anche del mondo dello sport, non solo ingrato ma anche allergico alle bandiere, non a caso è saturo di bravi giocatori, di spettacolo per gli occhi, ma vuoto di figure alle quali davvero ci si possa affezionare, perché una bandiera è molto più che un professionista con addosso la stessa maglia per più annate.
Ecco dunque che scatta immediato il paragone col reale mondo del lavoro, dove con l’aggettivo “reale” non intendiamo svilire il lavoro di calciatore, ma portare il discorso a quelle professioni occupate dalla società di massa, dove il precariato sta sempre più prendendo piede e il padrone bada più ai costi che a un’opera ben fatta.

Il tema del marketing

Così nel calcio. Provate solo a immaginare quanto convenga fare questo discorso dal punto di vista del marketing. Dati alla mano, con la sola vendita di magliette le società sopracitate negli ultimi anni hanno moltiplicato di molto il fatturato: frutto di molte strategie messe insieme, e che un solo nome dietro molte, troppe casacche, metterebbe a dura prova per una questione di numeri.
Chiedete alle generazioni dei millennial meno recenti (a partire dagli anni ’80) di come una volta si comprava una maglia che sarebbe durata tanti anni quanto il nome che era dietro sarebbe stato attuale: ora sempre più spesso negli stadi la casacca dei tifosi è “aggiornata” e in sintonia con quelle in campo.
E’ brutto, crudele parlare così di un tema tanto sentimentale, ma talvolta dietro il cuore si nascondono molti interessi materiali.

L’ importanza mediatica

Poi ci sono anche le ragioni di cuore, certo.
Per esempio non è bene che un’intera tifoseria stia dalla parte del suo beniamino, non per una dirigenza che deve pensare al futuro della sua azienda e questo è necessario, perché nei freddi calcoli non c’è spazio per il sentimento che non porta a nulla di buono nel bilancio.
La realtà è che il calcio si è sbarazzato dei suoi adepti che hanno fatto innamorare una generazione, e tutti hanno abboccato.
Da quando ai tifosi interessa il bilancio delle squadre, quando abbiamo iniziato a guardare solo il tabellone del risultato?

Questo sport è amato per le forti emozioni che procura, per ciò che si prova nel “qui ed ora”, o non avrebbe folle incollate alla tv o pubblico urlante negli stadi e il commiato delle bandiere aiuta a piegare tutto ciò all’impietoso utile in bilancio.

L’evoluzione degli spettatori

Così le tifoserie cambiano, facendo sempre meno della fedeltà la propria funzione e sempre più del risultato il proprio motore scatenante, che spinge a protestare o a cantare in base al momento. Siamo cambiati anche noi, e forse non siamo più un pubblico da bandiere, la generazione Z non ricorderà più quei volti alla TV come propri amici, familiari (ciò è possibile perché c’era una sorta di “storia condivisa”, una continuità nel vedere il cucchiaio di Totti e la linguaccia di Del Piero): non un’esagerazione, ma una buona parte di quel calcio che ormai, dall’Italia all’Europa sta cambiando, si sta evolvendo, ci sta salutando, sbarazzandosi di quegli amici che buttavano la palla in rete e che consideravamo di casa.

Alessio De Paolis