Mentre l’Unione Europea si presenta come garante di diritti, progresso e sostenibilità, cresce un fronte critico che denuncia una trasformazione profonda e silenziosa dell’architettura politica continentale. Secondo questa visione, Bruxelles non sarebbe più il cuore pulsante della democrazia sovranazionale, ma l’epicentro di un sistema di governance tecnocratica, dove il dissenso viene marginalizzato e le decisioni calate dall’alto.

Attraverso le parole dell’ex europarlamentare Ferdinand Kartheiser, Martina Pastorelli raccoglie l’allarme per una deriva che, nel nome dell’integrazione, rischia di sacrificare sovranità, pluralismo e libertà individuali.

Un progetto post-democratico

Per i critici dell’attuale Unione, la deriva non è solo politica ma strutturale. Le istituzioni comunitarie, più che rispondere agli elettori, sembrano oggi rispondere a lobby, fondazioni globaliste e centri di potere extra-parlamentari.
Il risultato è un’Europa che appare sempre meno rappresentativa: “Il governo europeo è in mano a uno stato profondo, non ai cittadini”, osserva Pastorelli, citando anche il ruolo degli attori del Forum di Davos e dell’apparato corporativo interno alla macchina istituzionale.
In questa dinamica, politiche come il Green Deal, la transizione digitale o la difesa comune non emergerebbero da un dibattito democratico, ma da una regia globale che costruisce urgenze per legittimare scelte già prese.

La censura come strumento normativo

Un altro fronte di critica riguarda la libertà di espressione: l’UE viene accusata di promuovere un clima di controllo culturale, dove la critica è delegittimata e la censura giustificata in nome della sicurezza. Il riferimento è al Digital Services Act, definito da Pastorelli come “uno strumento potentissimo che tappa la bocca a chiunque osi uscire dal seminato”. Non si tratterebbe solo di interventi sui contenuti “d’odio”, ma di un vero e proprio perimetro ideologico entro cui va mantenuta la comunicazione pubblica. Il dissenso non è più combattuto, ma espulso.

Costruzione del nemico, demolizione della sovranità

Alla base di questo assetto, ci sarebbe una logica ben precisa: la costruzione di un nemico permanente – climatico, sanitario, geopolitico – per generare uno stato d’emergenza utile a consolidare potere. “Il progetto nasce da un inganno: creare un senso di crisi per legittimare un maxistato federale“, spiega Pastorelli. Le conseguenze? La perdita delle identità nazionali, la rinuncia all’autonomia strategica e la progressiva riduzione degli Stati membri a semplici esecutori di ordini. La difesa comune diventa così una leva simbolica: l’obiettivo non sarebbe tanto un esercito europeo, quanto la creazione di un meccanismo decisionale centralizzato a cui ogni Paese dovrà adeguarsi, anche in materia di guerra.

Ingegneria sociale e pensiero guidato

Secondo questa lettura, l’UE non si limita a riorganizzare i poteri politici, ma plasma anche i cittadini. Si parla apertamente di una “pedagogia delle masse“, tesa a formare individui “sradicati, incerti”, incapaci di resistere a una narrazione dominante.
Il risultato è un’ingegneria sociale sistemica, che lavora sulla psicologia collettiva più che sulla struttura giuridica.
“Ecco perché tutti stanno zitti”, dice Pastorelli. “Il modello americano ha fatto scuola: fabbrica le opinioni e costruisce nemici, legittimando conflitti e silenzi”. Uno scenario inquietante che, se reale, ridefinisce il senso stesso di cittadinanza europea: da soggetto partecipante a figura gestita, contenuta, indirizzata.