Trasformare l’emergenza in opportunità: un detto divenuto presto arma a doppio taglio in tempi di Covid. Se il fine è quello di rendere le condizioni di vita migliori approfittando di condizioni straordinarie, con l’introduzione a tutto spiano dello smart working, ad esempio, potrebbe accadere l’esatto contrario. Minori costi e maggiori benefici per le aziende, viceversa per i lavoratori. Questi ultimo costretti perdipiù a rinunciare alle pratiche di socializzazione, fondamentali per la nascita di quella che un tempo si sarebbe chiamata coscienza di classe.
“Contro lo smart working” si è schierato apertamente di recente il sindacalista Savino Balzano, in un libro edito da Laterza. L’autore del testo appena citato è intervenuto ai microfoni di Stefano Molinari per spiegare i rischi nascosti dietro questo nuovo modo di mettere in pratica la propria professione. Da grandi crisi derivano grandi occasioni, ma il rischio denunciato da Balzano è che ancora una volta siano a vantaggio “del grande capitale finanziario, delle grandi multinazionali per normalizzare ciò che fino a questo momento ci è stato spacciato come emergenziale”.
Ecco l’intervista a Savino Balzano durante Lavori in Corso.
“Se tu provi molto banalmente ad andare su Google, cercare ‘smart working’ e cliccare nella sezione immagini, hai una rappresentazione quasi plastica di quello che la narrazione oggi prova a imporci. Una narrazione dello smart working assolutamente falsata e lontana dalla realtà. Ci vengono rappresentati lavoratori felici, sorridenti a bordo piscina, lavoratori dal cottage in montagna, oppure nei boschi o nelle oasi naturali. Penso che questo sia sufficiente a comprendere quanto questa narrazione, che non a fatico a definire di regime, stia provando a imporci in questi mesi.
Io credo che la crisi sanitaria sia stata utilizzata e venga ancora utilizzata come una grande opportunità da parte del grande capitale finanziario, delle grandi multinazionali per normalizzare ciò che fino a questo momento ci è stato spacciato come emergenziale. Il tentativo è quello di dare il colpo di grazia a un modello già agonizzante e imporre questa forma capitalistica neoliberale che vede ancora più fragili, subalterni e ultimi coloro i quali nel Paese già erano nelle periferie della nostra società. Io credo che qualcuno stia vivendo questa fase storica come una grande opportunità, una grande occasione.
Che cosa non mi piace di questo smart working: prima di tutto la narrazione che si consuma attorno, cioè ci raccontano una roba che non esiste. Quello che loro ci raccontano non esiste.
Lo smart working che abbiamo vissuto durante la crisi sanitaria è diverso da quello originario. Quello originario era stato inteso come una modalità marginale, residuale, un cuscinetto per garantire ai lavoratori una migliore conciliazione tra vita e lavoro. Quello che noi invece stiamo vivendo adesso è l’ipotesi di un nuovo paradigma ordinario e generalizzato di prestazione lavorativa. E perché questo nuovo smart working fa gola alle grandi multinazionali? Per il semplice motivo che la grande azienda ha grandi risparmi solo se riesce a dismettere gli immobili. Se tu devi ospitare i lavoratori due, tre giorni a settimana, tutti questi grossi vantaggi economici non ce li hai. Lo smart working è esploso ora perché lo si vuole come paradigma generalizzato. Se assumesse questa configurazione i danni sarebbero enormi: sul piano individuale, retributivo e politico”.










