La prima impressione è che a un’Atalanta leziosa corrisponda, nel primo tempo, un’Inter molto più concreta, con il sovrappiù del palleggio di Barella e compagni che appaga l’estetica, oltre a prevalere nell’efficacia.
La seconda impressione è che nei sedici metri l’impatto di Thuram sul pallone sia sempre un plus per l’occhio di chi guarda, anche quando le esecuzioni sono vanificate dai fuorigioco altrui.
Se gli uomini di Chivu non chiudono in vantaggio il primo tempo è soltanto a causa del loro essere precipitosi sotto porta.

Il bello delle partite è che non cambiano solo in corso d’opera: a volte accade anche durante l’intervallo, il che spiega il ritorno furente e molto più verticale nel puntare la porta da parte dei bergamaschi. Zalewski a un niente dal vantaggio, sprecato addosso a Sommer, De Ketelaere annullato subito dopo (peccato per la chirurgica conclusione in buca d’angolo). Annullato anche per Scamacca poco dopo, ma è la testimonianza che dietro le sfumature dei centimetri in fuorigioco ci sono i sintomi di pericolosità e i corridoi che Ederson e compagni riescono a individuare.

La Dea ridiventa umana nel momento in cui stava profondendo il massimo dell’intensità: il gol è di Lautaro, il copyright della giocata lo rivendica Pio Esposito, per il modo in cui approfitta del disorientamento di Djimsiti. È il morso del cobra, che non avverte la vittima, a maggior ragione quando quest’ultima si sente più al sicuro.

L’Atalanta riesce però a tenere in vita la propria partita, forte della convinzione che l’Inter sia ancora aggredibile. Concetto non sbagliato ma nerazzurri sempre più smaliziati nel congelare la palla, nell’ultimo quarto d’ora. Così finisce, alla fine, con un risultato giusto nella misura in cui conta la capacità di sfruttare gli episodi. Anzi: di farseli bastare. Soprattutto se Samardzic, solo all’ingresso in area, scambia la porta con la gradinata.