Poggiammo le biciclette accanto alla fontanella; sgranchimmo le gambe indolenzite e la schiena compressa dallo sforzo. La luce della primavera appena sbocciata cominciava a distendersi obliqua sui tavolini traballanti, già affollati di turisti.

La norvegese, come ti sbagli, era già in sandali e bermuda, forse addirittura accaldata, dal modo in cui sorseggiava la birra ghiacciata. Le si avvicinavano a turno, imparando quanto può essere respingente un sorriso.

Le nostre voci si trascinavano, come la suola delle scarpe da ginnastica che faticava a scaricare sui sampietrini appuntiti la carica elettrostatica della pedalata. Nel dubbio di cosa fosse meglio per rifocillarci, se la pizza a taglio che a quell’ora del pomeriggio esce di continuo o i dolcetti antichi della pasticceria lì dietro l’angoletto, le nostre voci si rincorrevano nel dibattito tra canditi e mozzarella fumante, sempre un tono più su, nella concitazione allegra di chi si è sforzato per divertimento e nella percezione del privilegio che ci può essere in un pomeriggio senza lancette, scandito solo dalle stupidaggini che ci si scambiano pedalandosi accanto.

Decidemmo per la pizza e a pensarci bene non c’erano dubbi sin dall’inizio, anche se quel po’ di fila al bancone, mezzi sudati e con gli zainetti in spalla, ci pesava più dei chilometri percorsi e di quelli che ci aspettavano.

Prima ancora che mi arrivasse alle narici il profumo del pomodoro fuso e dell’origano, del rosmarino e delle patate, notai che ci stava guardando, con un sorriso striato di rughe, come quelli che hanno i nonni quando ti contemplano in silenzio.

Eeeh… Bella cosa la gioventù, la cosa più bella…”.

Iniziò a guardare lontano come per cercare un punto che non si sarebbe mai fatto trovare; ebbi l’impressione che stesse considerando quel nostro chiacchierare spensierato, quella fame di pizza, le biciclette accessoriate velate di polvere come un qualcosa di straordinario, di irripetibile. Risposi che non eravamo poi così giovani, visto che il piccolo della compagnia ero io, che andavo per i quaranta.

Eh, magari…”.

Rispose sempre tornando a cercare quel punto perso chissà dove, mai più tornato da chissà quale posto. Pure lui ce l’aveva avuta la bicicletta, disse, con i freni a bacchetta, una bici inglese, sottolineò con orgoglio. Non parlava di un se stesso lontano, distante nel tempo: sembrava alludere invece alla vita di un altro, di uno che a un certo punto non aveva più incontrato, come fosse sparito chissà dove da un giorno all’altro. Provammo ad offrirgli un poco di pizza, che non guardò nemmeno, carezzando l’aria dolce con un gesto cortese della mano affusolata. Il cibo non doveva averlo mai interessato molto, in assoluto, a giudicare dal profilo affilato e dai buchi della cinta.

Abito qua dietro…”.

Perché ce lo disse? Non ricordo, ero intento a contemplare quel sorriso fioco, come il sole di quella primavera iniziata ma non esplosa: mi fece pensare alle candeline dei compleanni, quando non si riesce ad accenderle per bene. Quanti poteva averne, lui, alle spalle? Ottantacinque, almeno, ben portati nonostante il carico di malinconia che rendeva ogni gesto più solenne. Sollevammo le bici dal sedile in pietra accanto alla fontanella, dove il sole batteva prima di cominciare a svicolare. Ci si sedette osservando i nostri gesti, carezzando con lo sguardo il giro delle nostre ruote, che per lui doveva essersi interrotto chissà come. Facemmo un mezzo giro per rimetterci in direzione del Lungotevere, dove saremmo sbucati di lì a qualche secondo. Si tolse la giacca, ripiegando le maniche della bella camicia celeste. Sull’avambraccio agitato con calore per il saluto col quale ci augurò buon proseguimento, i peli bianchi facevano risaltare la serie di cifre scure, anche se sbiadite dal tempo.

Paolo Marcacci