Alle cose bisogna dare innanzitutto un senso, affinché abbiano poi un significato; anche sotto un diluvio come quello di Konya, nel cuore dell’Anstolia, per la partita più frustrante, nonché inutile, dell’intera storia azzurra. Anche se nel mentre, in sottofondo, si avverte l’eco dei festeggiamenti portoghesi, polacchi e via dicendo.

Il senso sta in quel passo da compiere tra l’ultimo metro di un’epoca che si chiude e il primo di una che inizia. In questa ottica, ha senso che il timoniere sia chi c’era già prima, chi ha scelto di continuare a esserci; anche perché, alle viste, cosa o chi c’era di meglio?

L’Italia di Mancini in Turchia ha salutato se stessa, ciò che è stato qualche mese fa, non in un’era geologica precedente; allo stesso modo salutano un po’ di eroi, senza virgolette, della scorsa estate, perché come tali furono celebrati, anche dalla grancassa governativa.

Cosa c’è all’orizzonte? Forse, la consapevolezza: di ciò che si è e di ciò che non si ha; di chi servirà per ripartire, di chi s’è guadagnato l’investitura e di chi avrà le occasioni che merita a breve. Sarà un’Italia rinnovata ma non del tutto nuova, con alcuni interpreti che daranno una caratura diversa al gioco. E con la sensazione di aver pareggiato il conto con la sorte, tra gli episodi fortunati negli snodi decisivi dell’Europeo e tutti gli sgambetti che il destino ha disseminato durante le qualificazioni mondiali, al netto delle evidenti colpe palesate con Bulgaria, Svizzera, Irlanda, Macedonia.

Paolo Marcacci