Italia senza euro: We can do it

La materia economia si interseca spesso con la storia, sovrapponendosi alla politica ed alla sociologia. Di per sé questo approccio ripudia il modello unico, la pretesa naturalità dell’economia e come scrisse l’economista francese Piketty: “Ci sono questioni che sono troppo importanti per essere lasciate agli economisti”.

Il tema dell’uscita dall’euro non fa eccezione. 

Le sofferenze dei paesi più fragili dell’Europa hanno prodotto conseguenze sociali che ci pongono davanti ad un quesito: quanto forte sarà la democrazia in Europa? L’euro ha lasciato i cittadini senza voce in capitolo sul destino delle loro economie in continua recessione, i governi hanno risposto con l’applicazione sempre più rigida di misure d’austerity. Ma per quanto tempo può durare tutto questo?

Innumerevoli precedenti storici ci informano sul fatto che gli agganci valutari fra paesi diversi falliscono sempre. Il continente europeo non deve coincidere necessariamente con l’euro, l’Europa non deve corrispondere necessariamente con l’idea odierna di Unione europea. Constatare ciò non significa essere antieuropei, anzi è tale colui che si ostina a difendere le istituzioni fallimentari contro ogni evidenza ed è  sordo di fronte l’avviso dei maggiori studiosi internazionali. Essere dell’idea che un’Europa senza l’euro e con una diversa Unione europea possa essere migliore significa essere miopi? Anch’essa è un’utopia? 

Per verificarlo ho attinto all’analisi di Alberto Bagnai, il quale parte dalla situazione del nostro Paese, allargando poi progressivamente lo scenario.

Un percorso autonomo dell’Italia, sganciato dall’eurozona è possibile ma non privo di inconvenienti e di sacrifici, sarebbe verosimilmente più auspicabile la ripresa di un percorso comune con i membri europei, che proceda dall’adozione di un insieme di regole economicamente più razionali. Un percorso comune potrebbe portare benefici all’Italia e all’intera economia mondiale.

Secondo Bagnai una delle motivazioni principali che induce a non sganciarsi dall’euro è la minaccia di reazioni da parte degli altri paesi dell’eurozona, quali ad esempio l’imposizione di dazi o l’isolamento politico del paese che decide unilateralmente di uscire. Tale idea si basa su due presupposti non completamente validi: il primo riguarda il fatto che i paesi del centro non sono in una situazione economica così florida rispetto a quelli della periferia; il secondo è legato alle modalità politiche di gestione dell’uscita che verranno scelte, nonché agli effetti a catena che potrebbero determinarsi dopo un’uscita di un paese come l’Italia.

In uno studio condotto nel 2012 si chiarisce, invero, che l’Italia è il Paese che avrebbe il maggior incentivo ad uscire dall’eurozona per la relativa solidità in termini di avanzo primario di bilancio, la riduzione del suo debito pubblico in caso di uscita, il fatto che la ridenominazione del debito estero nel suo caso non porterebbe necessariamente ad un default. Dagli studi si è rivelato che l’uscita di un paese periferico incentiverebbe molti stati a fare lo stesso, in quanto gli altri paesi sarebbero posti di fronte a un chiaro esempio del fatto che l’uscita è possibile. 

Questo atteggiamento avrebbe due conseguenze.

La prima è che gli eventuali benefici della svalutazione italiana verrebbero contrastati dal fatto che altri paesi europei farebbero altrettanto, il che renderebbe inutile l’uscita, in quanto si innescherebbe una svalutazione competitiva che non porta alcun vantaggio. A parere di Bagnai questo argomento, però, parte da una valutazione disinformata: i paesi periferici dell’eurozona assorbono appena il 9% delle esportazioni italiane, contro il 32% dei paesi del centro, a cui si dovrebbero aggiungere gli altri paesi rispetto ai quali la nuova valuta si svaluterebbe, come il Regno Unito e gli Stati Uniti che contano per un 11%. Perciò, i paesi che sono suscettibili di svalutare quanto noi contano per meno del 10% del nostro interscambio commerciale, quindi l’idea che un effetto a catena annullerebbe gli effetti benefici della svalutazione non è corretta.

La seconda conseguenza è che dopo l’uscita l’Italia non si troverebbe completamente isolata in termini politici, in questo senso molto dipende dall’atteggiamento che i governi vorranno o potranno adottare.

Le analisi a riguardo suggeriscono di evitare di delegittimare le istituzioni comunitarie.

Ritorsioni in senso protezionistico da parte dei paesi del centro andrebbero sia contro il credo del libero scambio dell’Unione europea, sia in contraddizione con la necessità di continuare a rendere attraente per i paesi al “margine” la prospettiva di adesione all’Unione europea. Al di là delle considerazioni politiche, si possono applicare anche all’Italia le considerazioni che Sapir ha svolto per la Francia: dato che molte industrie italiane operano come subfornitrici di industrie tedesche, gli imprenditori della Germania potrebbero non vedere di buon occhio l’applicazione di dazi ai produttori italiani, mentre sarebbero avvantaggiati dalla diminuzione dei prezzi indotta dalla svalutazione.

In un mondo caratterizzato da una così alta interdipendenza, la strategia di intransigenza nei confronti dei paesi periferici è controproducente, perché equivale a danneggiare sia gli altri che se stessi. Oppure, in una visione più estremista, alcuni economisti avanzano l’idea che l’indebitamento dei paesi periferici potrebbe anche essere deliberatamente perseguito per imporre a quest’ultimi di svendere le proprie aziende pubbliche e private.

Riflettendoci, le politiche d’austerità imposte dal governo tedesco hanno ucciso la domanda interna dei paesi più deboli, il profitto delle aziende crolla, così come scendono le loro quotazioni in borsa. Tutti elementi che inducono i piccoli, medi e grandi imprenditori italiani ad accettare offerte di acquisto che, in condizioni economiche migliori, potrebbero rifiutare…


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