A ‘Lavori in corso’ con Luigia Luciani e Stefano Molinari è intervenuto l’avvocato di parte civile della famiglia Vannini: Celestino Gnazi.

È il 18 maggio 2015, Marco Vannini, 20 anni, è a cena dalla famiglia della fidanzata a Ladispoli. Succede qualcosa e Marco viene colpito da un colpo d’arma da fuoco. I soccorsi non vengono chiamati in tempo e Marco muore dopo ore d’agonia. Condannato il padre della ragazza, l’ufficiale di Marina Antonio Ciontoli, insieme alla moglie e ai figli: il primo appello dello scorso aprile 2018 dava 14 anni al capofamiglia, esecutore materiale dello sparo, e 3 anni alla moglie Maria Pezzillo e ai due figli, Martina (la fidanzata di Marco) e Federico, per concorso in omicidio volontario. Oggi la corte d’Assise d’Appello di Roma ha deciso che l’omicidio volontario con dolo eventuale è stato in realtà un omicidio colposo e per questo la sua pena è stata ridotta da 14 a 5 anni. A Radio Radio è intervenuto l’avvocato di parte civile della famiglia Vannini.

“È difficile pensare che un ragazzo di 20 anni, che doveva essere in un ambiente protetto presso l’abitazione dei propri suoceri e della propria fidanzata, venga colpito da un colpo di pistola, lasciato agonizzare per un’ora tra sofferenze atroci e non vengano chiamati i soccorsi – Si poteva salvare, questo hanno detto ben sei periti. È morto a causa della carenza di soccorsi, ritardati e negati da parte di quella famiglia dalla quale doveva essere protetto. La responsabilità penale? Accertata in questi termini da un buffetto sulla guancia”.

L’omicidio di Marco Vannini è stato valutato un omicidio colposo, meno grave persino di un omicidio stradale: “I genitori si chiedono ‘In che Stato siamo?‘ E io non so rispondere. Non so dire qual è lo Stato che deve proteggerli, che deve rendergli giustizia. Noi riteniamo che sia volontario – continua l’Avvocato GnaziSe non con il dolo diretto, sotto il profilo del dolo eventuale cioè nell’aver ritardato e omesso i soccorsi causando la morte pur avendola prevista. Era una situazione di una gravità tale che non ci si poteva non prospettare l’evento morte qualora i soccorsi non fossero stati chiamati”.

Chi ha sparato – osserva Molinari – è un militare di carriera che faceva parte dei servizi segreti. Essendo un professionista quindi sapeva che quella pistola sparava. “A nostro avviso non poteva non saperlo. Sono stati tutti buonissimi con questo signore riconoscendo che forse con grande negligenza non si era accorto che era carica. Questo è quello che gli è stato riconosciuto. Ma a me pare incredibile! Uno che spara con una Beretta, un militare di carriera che spara con una Beretta calibro 9 che dice ‘no ma io pensavo che fosse scarica’ e gli hanno creduto…”

Com’è stato valutato allora tutto ciò che è accaduto dopo lo sparo? “Il processo si è svolto proprio sulla seconda parte – chiarisce Celestino Gnazi alla domanda di Luigia Luciani – Innanzitutto si doveva stabilire se questo povero ragazzo si potesse salvare o no. Perché se non fosse stato possibile salvarlo comunque, allora non si poteva neppure parlare di omicidio volontario, si sarebbe escluso proprio tecnicamente. È stato stabilito che si poteva salvare, quindi bisognava ricostruire i fatti per come sono andati, se questi signori avevano la consapevolezza di quello che era successo, se erano consapevoli della gravità delle condizioni di questo ragazzo e quindi del dovere di chiamare immediatamente i soccorsi. Poi bisognava valutare se eravamo in presenza di un’ipotesi di omicidio colposo sia pure aggravato dalla previsione dell’evento, la cosiddetta colpa cosciente, oppure un omicidio volontario sotto il profilo del dolo eventuale, e cioè essersi rappresentati la possibilità completa che questo ragazzo morisse e nonostante ciò non abbiano chiamato i soccorsi.”

“Si tratta di due figure giuridiche al limite – spiega – molto molto simili. Il processo si è speso incredibilmente nel dover ricostruire i fatti che a tutti sembrano elementari. Nessuno può dire ‘sì ero a un metro, sì ero nella stessa stanza o ero a 5 metri però non ho capito che è partito un colpo di pistola’. A nessuna persona verrebbe in mente di dire ‘sì era una ferita ma non sanguinava’. A nessuno potrebbe venire in mente di dire ‘questo ragazzo non l’ho sentito urlare’. Eppure si è sentito questo e siamo stati costretti a dire ‘guardate che la ferita sanguinava, che hanno capito tutti, guardate che urlava’. Se sono stati ricostruiti così i fatti e poi si è detto ‘nonostante tutto questo comportamento gravissimo siamo in presenza comunque di omicidio colposo’… beh i giudici valuteranno e motiveranno questa loro convinzione, ma se fosse così io mi domanderei, e i genitori si domandano, in quale Stato vivo? Come sono tutelato? Mio figlio come può avere giustizia da questo Stato? Perché le sentenze rappresentano lo Stato.

La razionalità nella famiglia Vannini, osserva Luigia Luciani non è mai mancata: “Noi confidiamo nel ricorso in Cassazione del Procuratore Generale – conclude l’avvocato della famiglia Vannini – ha sposato la nostra tesi, ha sostenuto le stesse cose che abbiamo sempre sostenuto noi. Ritengo che, e lo solleciteremo a farlo, il ricorso in Cassazione verrà sicuramente proposto. Il nostro varrebbe poco perché sarebbe soltanto ai fini civilistici e pecuniari che francamente ci interessano poco”.