Basterebbe scorrere i titoli, scritti in tempo reale, delle principali testate straniere, subito dopo il termine di una finale che per le sue vibrazioni è stata di per sé un trofeo, vinta nei confronti di un Medvedev apparso comunque granitico per quanto riguarda la forza mentale, che nella semifinale contro Zverev aveva evidenziato una elevatissima soglia di concentrazione: in quei primi lanci giornalistici per via digitale, c’è stata già la sintesi di una raggiunta e definitiva grandezza, ossia lo status di un giovanissimo ma per saggezza già senza età Jannik Sinner.

Nella sua meritata vittoria agli Australian Open – smettiamo di chiamarla impresa, cominciamo ad alzare la soglia d’autostima del Paese – c’è l’Italia migliore, quella che conosce il suo valore e attraverso quello inquadra secondo la giusta prospettiva il valore degli altri, anche quando è eccelso, come nel caso degli avversari battuti da Sinner lungo il tracciato del torneo.

È persino ovvio dire che dopo oggi lui entra a far parte definitivamente di quella schiera di campioni che rendono appassionati di una disciplina anche quegli italiani che prima di loro non lo erano e al termine della loro parabola agonistica torneranno a non esserlo, come Alberto Tomba, Federica Pellegrini, Valentino Rossi, Marco Pantani. Il nocciolo del discorso secondo noi è un altro: un campione simile, appendice agonistica di un giovane individuo che nel corso del giorno fino a oggi più importante della sua vita celebra il fatto che i suoi genitori lo hanno sempre lasciato libero, ha molta più autorevolezza di tutti i politici messi insieme e, diciamolo con amarezza, delle stesse istituzioni.

Ciò che gli italiani non riscontrano più da troppo tempo in chi dovrebbe rappresentarli, lo vanno a cercare in quelli dai quali si sentono rappresentati. C’è un’Italia migliore, insomma, che può aiutare tutti noi a cercare di essere più degni. Anche senza una racchetta in mano.