A Trapani si sta svolgendo in queste ore il processo contro alcune ONG, tra cui Save the Children e Medici Senza Frontiere, accusate di collaborare al traffico di esseri umani con gli scafisti e a secondi fini di natura economica. “Questa è l’unica inchiesta in cui si hanno le prove materiali dei contatti fra ONG e trafficanti” ci dice il giornalista de La Verità, Fabio Amendolara.
Se è plausibile pensare, che la maggior parte degli attivisti, siano mossi dalla semplice volontà di salvare delle persone, sappiamo per certo che un filone delle indagini si incentra sul ritorno economico delle organizzazioni. “Più immigrati raccolti equivalgono a più fondi da recuperare tramite le donazioni“.

Questo“, continua Amendolara, “spiega anche tutta la propaganda che viene messa in atto quando ci sono gli sbarchi. Le ONG cominciano a raccontare le storie degli imbarcati, come sa chi si occupa di cronaca. Negli atti processuali ci sono anche passaggi di questo tipo, con i vertici della ONG tedesca Jugend Rettet che lo palesano in modo molto nitido. Ma anche gli attivisti di Medici senza Frontiere e Save the Children parlano tra di loro di raccogliere le storie migliori per raccontarle alo sbarco, quindi c’è un nesso anche sotto l’aspetto economico“.

Ma non è tutto, perché alcune carte suggeriscono un contatto diretto tra Medici senza Frontiere e un intermediario che intratterrebbe (condizionale d’obbligo in mancanza di una sentenza) i rapporti coi trafficanti. L’uomo possiede informazioni che inoltra in seguito tramite una chat. Chat che a un certo punto viene chiusa dagli attivisti e che “era diventata imbarazzante, soprattutto per quelli di Save the Children, perché c’erano tracce di contatti espliciti con gli scafisti, non soltanto tramite l’uomo intermediario del Nord Africa ma con i frequentatori abituali della chat“.

Nella chat non c’erano solo le tre ONG finite nell’inchiesta di Trapani. Tant’è vero che uno dei team leader a un certo punto si sente in difficoltà asserendo di aver paura di mettere in difficoltà le altre ONG che non condividevano questo modo di fare“.