La Corea del Sud prova a metterci il decoro della sua vivacità, ammantata dai dettami tattici di Paulo Bento: su questo pianeta, qualcosa di più che decente. Opposto al divertimento dei marziani, al loro autocompiacimento estetico, tutto è cenere, soffiata via dal vento delle folate di Raphinha, di Vinícius Júnior, di Neymar che ha il volto della voglia e del rischio di battere sul tempo il tempo stesso, di Richarlison che quando riceve palla sembra poggiare la pianta del piede nudo sulla sabbia tiepida.

Quasi per ricordare a se stesso e agli altri che con il palleggio calcisticamente erotico dei compagni coesiste l’ufficialità dell’impegno, Casemiro per ogni pallone che minimamente velato dal pressing avversario che riceve, ne restituisce uno lucido e più tondo nei giri delle mille azioni che fa ricominciare.

La bellezza quando è autentica non si accontenta mai di una forma definitiva: in un ginepraio di dribbling e fraseggi di prima in mezzo ai quali anche Marquinhos e Thiago Silva si vestono da trequartisti, spunta anche il guanto di Alisson a schiaffeggiare un vagito di rischio.

Il tabellino a un certo punto finisce nello sgabuzzino delle cose che non occorrono; non stasera perlomeno: la didascalia è solo un fastidio grafico che oscura una parte di torcida.

Potremmo dire che allo scoccare dell’ora di gioco la Corea pensa a restare in partita con orientale dignità e con un gol di pregevole fattura di Park Seung-Ho; il Brasile ad accarezzarsi i muscoli coccolando il pallone, lanciando un nuovo messaggio ipnotico al resto del pianeta. Anche la bellezza può essere una minaccia. È un po’ il messaggio della “Ginga”, non samba ma capoeira, lotta dissimulata nei passi di danza, com’era nello stile di gioco di un Pelé ragazzino in Svezia nel 1958. Dev’essere per questo che ogni tocco, ogni dribbling stasera sono sembrati una carezza per lui.