Leggo sul sito dell’ANSA che in Israele è stato approntato uno studio che mostra testualmente come la seconda dose non basti in relazione alla variante Omicron del coronavirus. Ebbene sì: la seconda dose non basta, “occorre un nuovo booster“, scrive ANSA in relazione allo studio apparso in Israele.
Tralasciamo in questa sede la questione – su cui già più volte abbiamo richiamato l’attenzione – relativa al fatto che la salvezza è sempre una dose più in là, cosicché ogni dose appare provvisoria in relazione alla prossima (si veda la voce “cattivo infinito” nella riflessione filosofica hegeliana).
Insomma, nella civiltà delle merci ogni merce è provvisoria: appare nella circolazione, sparisce nel consumo e deve sempre riapparire nella circolazione, altrimenti si incepperebbe il meccanismo stesso su cui si fonda la civiltà dei consumi con la sua perversa circolarità, tale per cui il cattivo infinito del consumo e dell’acquisto deve procedere senza tregua.

Il vero significato di “booster”

Soffermiamoci invece sulla parola “booster”, che merita una pur celere riflessione. Cosa significa tecnicamente “booster”?
Significa “richiamo“, significa una nuova dose, significa in altri termini che la seconda dose non basta, quindi occorre un richiamo con una terza dose. Poi vi sarà la quarta e anche la quinta, alla luce di quanto si è detto in precedenza.
Perché allora usare la parola “booster” e non invece la più semplice e immediata espressione “terza dose”? Forse perché se si fosse detto “terza dose”, sarebbe apparso a molti – se non ai più – finalmente comprensibile ciò su cui si regge il nuovo fondamento del leviatano tecno-sanitario: i più si sono fatti benedire con due dosi pensando che con ciò si raggiungesse la salvezza, non hanno avuto contezza, finora, che la nuova normalità fondata sull’emergenza perpetua prevede dosi di benedizione ininterrotte, a ciclo continuo, secondo la logica-illogica del cattivo infinito di cui diceva Hegel.
Perché allora chiamare “booster” ciò che potrebbe essere più semplicemente chiamato “richiamo” o “terza dose”?

L’illuminante spiegazione da Manzoni

Può soccorrerci una rilettura del capolavoro manzoniano “I promessi sposi”: a un certo punto della sua narrazione Manzoni evoca in maniera spiritosa la categoria del “latinorum“, cioè quella categoria grazie alla quale i semplici credevano alle parole dei potenti semplicemente perché esse venivano espresse attraverso il “latinorum”, cioè un linguaggio autorevole, non del popolo.
Nel tempo del mercato planetario il nuovo latinorum diventa l’inglese dei mercati.
L’anglofonia svolge così una duplice e sinergica funzione per molti versi analoga a quella di manzoniana memoria : per un verso rende autorevole ciò che di per sé non lo sarebbe, e che magari sarebbe anche criticabile, da un certo punto di vista. Siamo avvezzi a questo modo di procedere. Non è forse vero che la raison neoliberale chiama “austerity” l’austerità depressiva? Non è forse vero che la stessa raison neoliberale chiama “spending review” le scellerate politiche di tagli alla spesa pubblica? Ebbene, non stupiamoci se ora compare anche la parola “booster” in questa stessa accezione. Si conferisce autorevolezza, mediante il latinorum dei mercati, a ciò che forse dovrebbe indurre le persone a una riflessione critica.

Vi è poi la seconda funzione, connessa alla prima, che è quella di una creazione immediata e irriflessa di accettazione verso qualcosa che viene presentato come autorevole, proprio perché non appare comprensibile. L’incomprensibilità preordinata o, se preferite, la modalità con la quale tramite il latinorum dei mercati si crea confusione nella mente dei semplici e dei più, che quindi accettano non perché capiscano ciò che accettano, ma semplicemente perché non capendolo lo vivono come autorevolmente buono, perché espresso con una lingua – in quanto tale – autorevole. La lingua dei dotti, dei sapienti. La lingua di chi ha sempre ragione: il latinorum dei mercati.

Così si spiega, forse, l’utilizzo in questi giorni della parola “booster”, come nei mesi precedenti della parola “lockdown”.
Se davvero si comprendesse che cos’è il lockdown (termine che deriva dal linguaggio carcerario) forse lo si contesterebbe maggiormente di come finora si è fatto.

RadioAttività, lampi del pensiero quotidiano – Con Diego Fusaro