In molti mi hanno chiesto sinceramente cosa io pensi dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò e della sua coraggiosa battaglia contro il leviatano tecno-sanitario.
Poiché, per quanto ne so, non esistono opere pubblicate da Viganò, mi baserò soltanto sui suoi materiali video e sulle sue esternazioni pubbliche.
Apprezzabile mi pare naturalmente la sua presa di posizione contro il nuovo ordine terapeutico con la quale egli si colloca direttamente al di sopra della massima parte della Chiesa cattolica, divenuta ancella della nuova religione medico-scientifica.

Non condivisibili, tuttavia, sono a mio giudizio i modi e le forme espressive di Viganò che mi paiono prossime a un fanatismo apocalittico che poco spazio davvero lasciano alla ragione e che, anzi, a tratti pare riconducibile a una delle tante figure della distruzione della ragione di lukácsiana memoria.

Il biopotere tecno-sanitario che ha occupato il pianeta nel volgere di poco più di un anno chiede di essere criticato teoricamente e sovvertito teoricamente, per dirla con Marx, secondo due presupposti di cui purtroppo non vi è traccia nelle parole e negli scritti dell’arcivescovo.
In primis vi è bisogno della fatica del concetto e di una decostruzione razionale che analizzi con la ragione dialettica le contraddizioni e le storture del nuovo ordine terapeutico neoorwelliano.
Il colpo di pistola del misticismo e del fanatismo di chi scomoda le potenze del bene contro quelle del male, della luce contro le tenebre, del Cristo e dell’anticristo, seppure possono avere una valenza euristica a tratti feconda, risultano vuote e dunque possono essere impiegate ad libitum ad ogni contesto e in ogni analisi.

Possono anzi prestarsi alle pratiche in auge del relativismo contemporaneo per cui tutto può essere indistintamente male assoluto o bene assoluto a seconda del punto di vista soggettivo.
Superfluo è ricordare che anche per i sostenitori del Grande Reset e del nuovo ordine biopolitico può essere male assoluto e demoniaco tutto ciò che ad essi opponga resistenza.
Sia chiaro, abbiamo senz’altro bisogno di trascendenza e di religione, ma “con la ragione”, avrebbe detto Ratzinger: la “fides quaerens intellectum” di Anselmo d’Aosta.

In secondo luogo, sul piano contenutistico stricto sensu, le analisi filosofico-politiche di Viganò si fondano – salvo errore – su due presupposti non condivisibili e tra loro reciprocamente innervati.
In primo luogo Viganò non riconosce il principio di sovranità popolare. Per lui la sovranità è di Dio, non dell’uomo, e men che meno del dèmos. Viganò non si avventura certo a porre in relazione il dèmos con il demonio, come anche a livello etimologico faceva de Maistre.
Nondimeno, secondo punto, Viganò ritiene demoniaco ogni tentativo storico del dèmos di ottenere il potere e dunque di farsi sovrano.
Non deve a tal riguardo sfuggire che in Viganò la critica – giusta – del Grande Reset gestito dal blocco oligarchico neoliberale, si accompagna senza soluzione di continuità a una acrobatica lettura della stessa Rivoluzione francese e di quella russa come parte del medesimo Grande Reset, il quale avrebbe come obiettivo precipuo l’annichilamento della sovranità divina, la sola che Viganò riconosce come legittima.

Ecco allora che per l’arcivescovo il Grande Reset è quello degli odierni gruppi oligarchici, quello dei giacobini e quello dei bolscevichi. In questa notte in cui tutte le vacche sono nere, in cui tutto diviene il medesimo indistinto, ogni sollevazione popolare diviene per definizione illegittima, e come tale deve essere condannata come indebito assalto al cielo.
Anche per questo la prospettiva di Viganò resta aporetica.

RadioAttività, lampi del pensiero quotidiano – Con Diego Fusaro