La Corte europea dei diritti umani condanna l’Italia per aver violato l’articolo 8 della Convenzione Europea, in riferimento alla vita personale della ricorrente. Si tratta di una donna vittima di violenza che nel 2015 ha dovuto subire una seconda ingiustizia, quando gli imputati sono stati assolti in secondo grado. I fatti risalgono all’estate del 2008: una festa alla Fortezza da Basso, zona della movida fiorentina, si conclude con uno stupro di gruppo nei confronti della ragazza.

Adesso giustizia sembra essere fatta. Stamattina il Tribunale di Strasburgo ha pubblicato la sentenza di condanna nei confronti del nostro Paese, in seguito al ricorso presentato dalle avvocate Sara Menichetti e Titti Carrano di D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza. “Le autorità dovrebbero evitare di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni dei Tribunali”: questa parte della pronuncia della Corte europea che ha ritenuto come il linguaggio e le argomentazioni utilizzate dalla Corte d’Appello di Firenze abbiano trasmesso i pregiudizi sul ruolo della donna che esistono nella società italiana.

Ebbene, come si è arrivati a tale sentenza? Ma, soprattutto, com’è possibile che i giovani siano stati assolti all’epoca? Ne parliamo con l’Avv. Titti Carrano, intervistata da Luigia Luciani e Stefano Molinari in diretta a “Lavori in corso”.

“Si è arrivati a questa sentenza perché la Corte Europea dei Diritti Umani ha esaminato gli atti del processo che si è svolto in Italia. Il ricorso è stato formulato da parte mia e della collega Sara Menichetti, proprio sulla violazione dell’art. 8 della Convenzione Europea, in riferimento alla vita personale della ricorrente. Nella sentenza, che stamattina è stata pubblicata, si leggono dei passaggi importanti, nel senso che la Corte di Strasburgo definisce deplorevoli, e irrilevanti, alcuni passaggi e linguaggi in riferimento ad alcune circostanze riportate nella sentenza della Corte di Appello di Firenze.

Tali circostanze sono state rilevanti ai fini della valutazione della credibilità della donna stessa. E quindi la Corte ha ritenuto una violazione di questi obblighi positivi che incombono sugli Stati di proteggere le vittime di violenza di genere da interventi che, chiaramente, minano l’immagine, la dignità, la privacy e la riservatezza delle persone. Purtroppo gli stereotipi di genere, nelle decisioni giudiziarie, esistono e ci sono. Non è un caso isolato questo.

Gli stereotipi sessisti esistono e non ce li abbiamo solo noi in Italia. E’ un problema enorme, è importante che ci sia una grande prevenzione e formazione di tutti gli operatori di giustizia e tutti coloro che intervengono in questi processi legali. Di tutto il sistema. La vita delle vittime che subiscono violenza viene, in qualche modo, vivisezionata. La dignità, l’immagine, la riservatezza di questa donna è stata calpestata.

Può intervenire il magistrato? Certo che lo può fare e, di fatto, interviene. Il problema in questo caso non è stato la regolarità di come si è svolto il processo, è stato il linguaggio e le circostanze utilizzate nella motivazione della sentenza, sulla base di questi pregiudizi e stereotipi. Non è stata creduta la donna e si è fatto riferimento addirittura ad abbigliamento e biancheria intima della stessa. E’ la cultura dello stupro che ancora esiste in Italia: in qualche modo te la sei cercata”.