“Io mi chiamo Sara, vengo dalla scuola elementare… mi piace il basket, il mio piatto preferito è la carbonara…“.

Così per Riccardo, per Martina, per Norin e per tutti gli altri. E tutto un mondo nuovo da conoscere è sintetizzato in uno sguardo, nel colore di due pupille. Sotto, comincia la mascherina. Quella verde distribuita all’entrata a studenti e insegnanti, che hanno tolto la loro e indossato quella. Ovunque i flaconi per la sanificazione, ai quali si attinge di frequente, qualcuno in modo quasi ossessivo. 

Assembramento c’è stato, davanti al cancello, con i vigili urbani che tentavano – tentavano – di regolamentare l’ingresso nell’istituto. Un cancello per entrare, uno per uscire, frecce rosse per terra a indicare i due sensi di marcia. All’inglese, devo dire. Il vigile urla, circondato da un plotone di genitori che premono come accadeva all’Olimpico negli anni ottanta prima dell’apertura dei cancelli; urla, tra l’altro, per far segno che noi dobbiamo urlare per l’appello, che ovviamente avviene all’esterno.

Salgono in fila indiana, non più a coppie di due; distanziati di un metro che a volte si allunga e più spesso si accorcia drasticamente, com’è naturale. Restano curiosi, i ragazzi, forse ancora di più in un primo giorno così, per preparare il quale non hanno potuto contare né sull’esperienza dei nonni, né su quella dei genitori, che qualcosa di simile non l’avevano mai vissuto. 

Non dev’essere stato facile coordinare tutto questo, consentire di tornare, oggi o il 24, a tutti questi individui di età diverse, con tutto quello che è e sarà obbligatorio pretendere dalla loro soglia di sopportazione, dalla capacità di stare fermi, dall’abilità di respirare con la mascherina senza appannare gli occhiali.

I dirigenti scolastici non hanno praticamente fatto vacanze, è bene ricordarlo; soprattutto, va tenuto a mente quando la scena è occupata da ministri e sottosegretari che gongolano per la riapertura. A proposito: dei nuovi banchi nemmeno l’ombra, per ora; quindi, la più sbandierata delle innovazioni nella maggior parte dei casi non ha inciso né aiutato per nulla la riapertura. 

Però siamo tornati, vincolati da una serie di restrizioni, ma siamo tornati, sperando di restare. Con una calura che nemmeno a luglio, con una rigidità nelle posture e una titubanza nei saluti che forse è la cosa più innaturale, ma siamo tornati. La scuola lo deve a se stessa, pur con tutti i suoi errori e la risoluzione a volte artigianale delle varie problematiche, diversa in ogni città, in ogni quartiere, in ogni istituto, a seconda di tante variabili che non è il caso qui stare a ricordare; certo è che il centro è il centro, la periferia è la periferia. Così come il Trentino ha scuole che sembrano succursali della NASA mentre da altre parti la serranda è rimasta incastrata e la finestra ancora non si può aprire. 

La scuola lo deve a se stessa, ripetiamo: la politica ha preteso un risultato da appuntarsi al petto, in chiave governativa; un succulento argomento polemico, dal punto di vista dell’opposizione. Ma, ancora una volta, chi dovrebbe guidare la scuola dall’alto e fornirle gli strumenti, dopo averne ribadito a parole l’importanza, è rimasto fuori; ha evitato di mettere in naso dentro questo mondo che continua a contare sulle sue risorse umane, spesso miracolose. 

Paolo Marcacci