E’ una prassi a cui siamo da tempo abituati: l’ordine del discorso utilizza l’inglese dei mercati in maniera analoga al latinorum di manzoniana memoria.
Lo fa per più ragioni, una delle quali è la patina di autorevolezza con cui la lingua dell’impero assegna con immediato automatismo alle cose, anche alle più inaccettabili.

Dire “austerity” anziché “austerità”, o “spending review” anziché “tagli alle spese” è in effetti un collaudato stratagemma volto a far sì che squisite scelte politiche, organiche all’ordine del potere assumano la forma di necessità sistemiche ineludibili.
Di più, come procedure sacre, evocate dalla lingua liturgica del dio mercato.

Ebbene, anche il lockdown rientra in questi termini anglofoni di legittimazione sacrale dell’ordine dominante. Insieme con la norma del distanziamento sociale, formula orwelliana che meglio andrebbe resa con “confinamento”, la prescrizione del lockdown è con tutta evidenza uno dei pilastri del nuovo regime terapeutico del capitalismo sanitario.
Sembra anzi prevedibile che quest’ultimo si fonderà sempre più sul distanziamento sociale, che sarà il nuovo principio organizzativo della vita sociale, al quale farà con cadenza più o meno regolare seguire con fasi di lockdown, che è poi il distanziamento sociale portato al suo grado massimo, che è quello della reclusione forzata nei perimetri della propria dimora.

Il nuovo totalitarismo terapeutico si reggerà presumibilmente sul distanziamento sociale permanente e sul lockdown a fasi alterne.
Se, come si diceva, “distanziamento sociale” andrebbe più opportunamente reso con “confinamento”, analogamente “lockdown” andrebbe reso con “arresti domiciliari”.

I vecchi regimi arrestavano i dissidenti e le personalità considerate colpevoli e pericolose rispetto all’ordine costituito. Il nuovo regime sanitario, mediante la categoria dell’asintomatico, ha trasformato tutti in soggetti degni di essere “arrestati” come potenziali contagiati o untori.
Tutti sono pericolosi per un sistema che ha innalzato la nuda vita a valore supremo, e forse esclusivo.

Anche l’argomento in auge sulla “privazione della libertà a fin di bene” non può convincere.
Non può convincere noi che veniamo dopo Adolf Eichmann, funzionario tedesco che di quel teorema fu tra i più ferventi sostenitori.

Né può risultare persuasivo l’altro argomento di politici e amministratori del consenso: “Se dobbiamo rinunciare ora alla nostra libertà è perché dobbiamo difenderla e recuperarla a emergenza finita“.
Ma come ha scritto Giorgio Agamben a riguardo, “una norma che affermi che si deve rinunziare al bene per salvare il bene è altrettanto falsa e contraddittoria quella che per proteggere la libertà impone di rinunciare alla libertà“.

RadioAttività, lampi del pensiero quotidiano – Con Diego Fusaro


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