Il 2 agosto, come ogni anno, l’anniversario della strage alla stazione di Bologna è tornato al centro del dibattito pubblico e mediatico. Ma stavolta, il fuoco incrociato non si è concentrato soltanto sui mandanti dell’attentato del 1980, quanto sulla narrazione stessa degli anni di piombo.
A sollevare la questione è stato Paolo Mieli, ex direttore del Corriere della Sera, ospite del programma In Onda su La7. Commentando l’attacco rivolto da Paolo Bolognesi (presidente dell’associazione vittime della strage) a Giorgia Meloni, accusata di “provenire dallo stesso passato da cui provengono gli esecutori delle stragi” (il Movimento Sociale Italiano, MSI ndr), Mieli ha sganciato una frase che ha raggelato lo studio:
“Nessuno chiama i reati dei terroristi di sinistra ‘comunisti’. Non c’è una targa che dica: ‘qui ci fu una strage comunista’”.
Una provocazione che ha scatenato reazioni immediate tra i presenti, da Luca Telese a Giovanna Botteri, passando per Marianna Aprile. Ma è proprio a partire da quella frase che, è intervenuto anche Daniele Capezzone, direttore editoriale di Libero, ospite di Stefano Molinari.
Stragi comuniste, Capezzone: “Mieli ha rotto un tabù, e ha mandato nel panico lo studio”
“Mi fa piacere che Paolo Mieli arrivi a ciò che in pochi sosteniamo da tempo“, ha esordito Capezzone, commentando l’episodio. “Ed è stato quasi divertente vedere lo sgomento delle facce in studio: sembrava che avesse bestemmiato“.
Capezzone ricorda quindi un libro ‘dimenticato‘, ma profetico: “L’eskimo in redazione“, scritto nel 1990 da Michele Brambilla.
“Il cuore del libro era chiaro: c’è stato un tentativo, dopo il terrorismo rosso, di dire che era un corpo estraneo della sinistra, isolato, minoritario. E invece, Brambilla documentava la simpatia di molti salotti, giornali e redazioni per le BR, specie tra il ’69 e il ’78“.
Capezzone cita titoli e formule tipiche dell’epoca: “le ‘sedicenti’ Brigate Rosse. E si sofferma su un episodio simbolico: la criminalizzazione del commissario Calabresi da parte dell’establishment culturale di Lotta Continua, con tanto di firme eccellenti. Un clima che, secondo lui, preparò il terreno per l’omicidio dell’agente nel maggio 1972.
“Perché su Bologna non si può dubitare?”
Il passaggio centrale del suo ragionamento arriva però alla fine: la questione della strage di Bologna.
“Io rispetto la sentenza, certo. Ma perché non se ne può discutere? Possiamo dubitare delle condanne di Erba, di Garlasco, possiamo discutere di Bompressi, Sofri e Pietrostefani per l’omicidio Calabresi, ma su Bologna no?“.
Capezzone sottolinea come persino Mambro e Fioravanti, riconosciuti colpevoli, abbiano sempre negato la responsabilità sulla bomba alla stazione, pur avendo ammesso altri crimini gravissimi.
“Ci sono tante piste alternative, e tante persone – anche di sinistra – che in passato si sono poste il dubbio. È un fatto che non toglie nulla all’orrore di quella strage. Ma il punto è: perché un solo caso non si può mettere in discussione? Chi decide cosa si può o non si può pensare?“.
“Fascista è un insulto, comunista no: doppio standard culturale”
Capezzone chiude con una riflessione più ampia sul linguaggio e la memoria selettiva:
“Oggi fascista è ogni partito non di sinistra che supera il 10% dei voti. Berlusconi? Fascista. Salvini? Fascistissimo. Meloni? Fascistissima. Ma comunista no, quello non si può dire. Quella è ‘gloriosa storia’“.
E, sulla base del ragionamento di Mieli, aggiunge:
“Dire che le BR non erano comuniste perché hanno ucciso un comunista è ridicolo. Lo stesso è accaduto nella storia del comunismo: da Trotsky alle purghe staliniane, i comunisti hanno sempre eliminato altri comunisti. È tempo di smetterla con questo doppio standard“.










