La serie televisiva M, il figlio del secolo, tratta dall’omonimo libro di Antonio Scurati, è al centro di un acceso dibattito. Per descriverla in modo sintetico ma incisivo, potremmo dire che si tratta di una fiction priva di una vera dimensione storica, dominata invece da un moralismo vacuo e polemico, simile a quello dell’“anima bella” descritta da Hegel: un atteggiamento che si limita a condannare il passato senza sforzarsi di comprenderlo, come se la condanna fosse già proiettata sul presente. Da questa prospettiva, l’operazione ideologica sembra muoversi su due piani.
Da un lato, si rinuncia a comprendere – e comprendere non significa giustificare – un fenomeno complesso, articolato, ambivalente e contraddittorio come il fascismo. Come gli storici hanno da tempo evidenziato, il fascismo non si riduce alla figura di un singolo uomo “demoniaco”, ma va inquadrato come risultato di un complesso storico specifico, legato alle condizioni del tempo. Questa dimensione, tuttavia, è completamente assente nella serie, che raffigura il fascismo come una subdola invenzione personale di un individuo perfido e ossessionato dalla sete di potere. Una visione tanto banale quanto puerile, riflesso diretto di quella già poco strutturata del libro di Scurati, che riduce la storia a una fiction moralistica per anime belle, priva di autentico senso storico.
Scurati, che si presenta come un antifascista in assenza di fascismo, sembra aver ignorato le lezioni di Antonio Gramsci. Per Gramsci, infatti, il fascismo non era un mero prodotto della personalità di Mussolini, ma rappresentava la brutale e autoritaria riorganizzazione di un capitalismo incapace di gestire il consenso e costretto a ricorrere alla forza del manganello per mantenere il controllo.
Il secondo aspetto critico riguarda l’uso ideologico che la serie fa del passato in relazione al presente. Un esempio lampante è la frase “Make Italy Great Again”, pronunciata dal Mussolini interpretato da Luca Marinelli, un’espressione ridicola che cerca di creare un’analogia inesistente tra il fascismo storico e l’attuale fenomeno del “trumpismo”. Questa è una palese falsificazione storica, utile però a sostenere una narrazione ideologica che glorifica l’ordine della cosiddetta “Civiltà Neoliberale”, identificata con libertà e democrazia. Un’operazione aberrante dal punto di vista storico, ma funzionale a consolidare le istanze ideologiche che permeano sia la serie sia il libro.
Questa tendenza rientra nella logica del capitalismo assoluto e totalitario contemporaneo, che non ha più bisogno del fascismo storico, di cui si servì in passato, ma tende a identificare con il fascismo tutto ciò che non si conforma al suo ordine liberal-progressista. In tal modo, il fascismo viene completamente destoricizzato, trasformato in una categoria metafisica o, peggio, in una clava morale con cui delegittimare chiunque si opponga ai confini ideologici del capitalismo odierno: un capitalismo fondato sulla deregolamentazione economica e antropologica, il libero consumo e il libero costume. La violenza dei mercati e della finanza viene così elevata al rango di libertà e giustizia sociale, da difendere contro il “ritorno del fascismo”, che viene associato a qualsiasi minaccia all’ordine reificato della società.
Secondo la narrazione dominante, sono “fascisti” Trump e Putin, Xi Jinping e Maduro, tutti coloro che, per motivi e intensità diverse, non si allineano completamente al nuovo spirito del capitalismo progressista. La serie, come il libro, si configura dunque come una celebrazione ideologica dell’ordine attuale, che svilisce l’antifascismo, un tempo rappresentato in modo serio e legittimo da figure come Gramsci e Gobetti. Oggi, invece, l’antifascismo viene ridotto a un patetico strumento di giustificazione dell’ideologia del mercato e della violenza finanziaria.
RadioAttività – Lampi del pensiero quotidiano con Diego Fusaro