La stampa di Cecchettin sembra accogliere il capitalismo con il congedo della figura paterna

Esce oggi, 5 marzo, in tutte le librerie d’Italia l’attesissimo, almeno per alcuni, libro di Gino Cecchettin intitolato: “Cara Giulia”. Da diversi mesi se ne parlava insistentemente e da oggi l’opera, vede la luce. Come più volte abbiamo sottolineato, il dolore di Gino Cecchettin merita il massimo rispetto. Si può invece più criticamente discutere della sua posizione, voglio dire della posizione che egli ha scelto di assumere adottando scientemente il ruolo di uomo pubblico, uomo pubblico che partecipa alle trasmissioni televisive e pretende di trasmettere insegnamenti. Il libro esce oggi e già stanno circolando alcuni passaggi del medesimo. Uno particolarmente ha calamitato in modo magnetico la mia attenzione.

Scrive Gino Cecchettin: “siamo noi uomini i primi a dover cambiare e dobbiamo parlare soprattutto a quelli che desiderano il cambiamento e non si sentono più aderenti ai modelli che sono stati trasmessi loro, dai padri”. A colpire di questo passaggio, è il richiamo a modelli trasmessi dai padri, quasi come se sul banco degli imputati, dovesse essere condotta la cultura che ci hanno trasmesso i genitori, i padri, e che è radicata nella nostra tradizione. Non posso sapere, ovviamente, quali valori abbia trasmesso a Gino Cecchettin suo padre. Posso tuttavia dire che il mio, come immagino molti altri padri, mi abbia trasmesso come valore imprescindibile il rispetto dell’alterità, maschile o femminile che sia. La nostra stessa cultura, salvo errore, prevede il rispetto della persona umana, intesa come portatrice di dignità. Secondo l’etica cristiana la persona è addirittura immagine di Dio, uomo o donna che sia la persona in questione.

Non mi pare per nulla condivisibile, l’andamento generale del discorso di Gino Cecchettin, così come lo ha più volte espresso nei suoi interventi pubblici e come mi pare di capire, è anche al centro del suo nuovo libro. Mi pare infatti del tutto assurdo colpevolizzare l’intera categoria maschile, quasi come se si desse una colpa di genere. Il palese rischio è quello di cadere in un razzismo di genere analogo a quello biologico. Il fatto che ci siano stati, e che purtroppo ancora temo ci saranno, episodi di violenza dell’uomo sulla donna, ne esistono comunque anche, per quanto minori di numero, di violenza della donna sull’uomo, non può in alcun caso comportare una generalizzazione, tale per cui l’uomo, in quanto tale, diventa colpevole.

Non è forse vero che la massima parte degli uomini ha solidarizzato con la povera Giulia e ha colpevolizzato incondizionatamente il suo carnefice? Non è forse vero che, per fortuna, la massima parte degli uomini tratta oggi con rispetto le donne con cui ha a che fare quotidianamente? Come non mi stanco di ripetere, la violenza tossica dei nostri tempi, emersa appunto nel doloroso caso di Giulia, non deve essere posta in connessione con una cultura del patriarcato che, per fortuna, in Europa non esiste più da almeno 70 anni.
Da quando cioè, come rilevava Pasolini, il capitalismo ha mutato andatura ed è passato dalla fase repressiva e patriarcale a quella, non meno orrenda, non meno repressiva, di tipo edonistico, permissivo: la fase del consumismo totale. La nostra non è più la cultura del patriarcato, come era un tempo, semmai è la cultura del padre evaporato, come spiega Lacan. La cultura in cui la legge si è dissolta e resta soltanto il desiderare senza limiti, che assurge esso stesso al rango della legge e che ove ancora incontri legge e tabù, li travolge impietosamente e in maniera violenta. Così e non altrimenti debbono essere spiegati gli incresciosi episodi di violenza che costellano il nostro presente. Casi di desiderio senza limite, che incontrando il no e il limite, li travolge violentemente a ciò che trionfi sempre e comunque il desiderio, innalzato a unica legge del tempo della deregolamentazione totale.

Di tutto questo temo, non ve traccia nel libro di Gino Cecchettin, che cerca invece di farci credere che la violenza oggi, scaturisce dalla cultura del patriarcato e che dunque è un bene superare con la cultura del patriarcato, la cultura stessa della famiglia e del padre, come peraltro pretende la civiltà dei consumi con la sua conclamata messa a morte del padre come emblema della legge del limite. Siamo dunque, come dicevo, molto vicini a Gino Cecchettin per il dolore che ha travolto la sua vita, ma non crediamo che la sua interpretazione sia efficace. Ci pare anzi, che non colga nel segno e risulti inavvertitamente funzionale alla civiltà dei consumi e alla sua deregolamentazione.

La vera soluzione, starebbe nell’educare al senso del limite della legge. Abbiamo dunque bisogno più che mai del padre, non certo della sua messa in congedo.

Radioattività – Lampi del pensiero quotidiano con Diego Fusaro