Fake news e guerra si rincorrono da tempo immemore.
Un legame inscindibile che sottolinea l’influenza che i media possono avere ogniqualvolta ci imbattiamo in una notizia infondata.
Basta un solo titolo di giornale e il gioco è fatto: la macchina dell’informazione si anima e stampa senza sosta la notizia appena riportata.
Tutto nella norma, se non fosse che a ogni riproduzione spesso per forza di cose la fondatezza di ciò che è stato riportato viene sempre meno. “In guerra, la verità è la prima vittima”. La famosissima e inflazionata frase di Eschilo rende chiaro il concetto su cui insistere.
Colpa della disattenzione e della frenesia o volontà precisa di “inquinare” il sentimento popolare?
Nella storia le due motivazioni spesso e volentieri coesistono, sfruttando due tecniche di manipolazione sfruttate ad hoc per far prevalere la propria propaganda bellica. Un clamoroso esempio di notizia falsa fu la nota storia del soldato crocifisso dai tedeschi nella Prima Guerra Mondiale.

Il soldato canadese crocifisso

Siamo su per giù nel finire del mese di aprile, anno 1915.
La Grande Guerra inizia a entrare nel pieno della sua attività.
Da una parte la Triplice Alleanza di Germania, Impero austro-ungarico e Italia (che poi si sposterà verso l’Intesa).
Dall’altra Gran Bretagna, Belgio, Francia, Russia e altri paesi occidentali (gli USA entreranno in guerra nel 1917).
Si diffonde una “notizia” che porta con sé un’ondata di sdegno: “I tedeschi hanno crocifisso un soldato canadese“.
Il tragico omicidio vicino a Ypres, in Belgio, viene ripreso qualche settimana dopo dal Times.

Lo storico quotidiano inglese il 10 maggio 1915 presenta un articolo con titolo: “La tortura di un ufficiale canadese”.
Basta leggere poche righe di ciò che il corrispondente da Parigi racconta per scoprire cosa non va.
Tutti i soldati canadesi tornati dalla seconda battaglia di Ypres hanno raccontato la notizia.
I soldati che l’avevano raccontata l’avrebbero a loro volta ascoltata da ufficiali di un reggimento britannico, che avrebbero visto “coi loro stessi occhi” il corpo del soldato crocifisso alla porta di una stalla.

Il volto della notizia infondata emerge da sé: la notizia non presenta prove per cui ufficializzarla. E se anche fosse almeno parzialmente fondata, non ci sarebbero comunque le certezze necessarie per i media per presentarla come notizia.
Il tempo dà poi i suoi frutti: per anni nessuno riuscì a verificare il fatto. Il corpo non fu mai ritrovato e le versioni dei vari testimoni ai tempi erano confuse o si contraddicevano persino sulla nazionalità del soldato. Intanto però la notizia fu diffusa e nacquero da lì storie e racconti diffamatori nei confronti del nemico tedesco, già etichettato in quegli anni come l'”unno” pericoloso e crudele. L’episodio è ricordato nel tempo come un mito che portò gli Stati dell’Intesa ad ampliare un sentimento popolare antitedesco già forte in quegli anni.

Le conseguenze

“Col tuo sacrificio fermeremo tutto questo”, recitava un manifesto americano.
Da qui si rende evidente quale sia l’altra tecnica che segue la fake news: la demonizzazione.
Strumentalizzando la notizia, la propaganda dell’Intesa si inferocì tanto da incoraggiare i giovani a combattere contro chi aveva prodotto tali crudeltà. Un metodo in realtà molto popolare per le nazioni interessate nella guerra, da una parte e dall’altra, per mantenere alta la motivazione per arruolarsi e combattere in un conflitto tanto sanguinoso e distruttivo.

Una notizia parzialmente o completamente infondata riportata dai media contribuì allo scandalo, rendendo chiaro quale davvero sia il potere degli organi di informazione. E pensare che coi giornali cartacei scoprire la debolezza di una notizia era a portata di occhiello. Niente clicbait.