Il delirio di Fassino. E non solo

Onestamente non volevamo parlare di Fassino.
Poi però bisogna pensare: questa è la classe politica che in un momento storico particolarmente delicato si permette di esibire in aula la busta paga. Ma soprattutto fingendo che quell’emolumento sia l’intero percepito dal parlamentare. Il che quindi è grave.
Non è tanto il dire: “Basta con il populismo, noi non abbiamo stipendi d’oro”. Il primo problema è che questo non è populismo.
Secondo, è un momento storico particolare. Terzo, non fare il furbo, perché non è quella la busta paga complessiva.
E se tu ti avvali di un altro pezzo della tua retribuzione per pagarti gli alberghi e i viaggi per le attività politiche, i giornali eccetera, sappi che nella busta paga di un lavoratore normale quelle cose non ci sono. E quindi non puoi dire che 4700 euro è il tuo guadagno, perché non è così. Non è quella la busta paga.

La cosa grave è aver mentito per tentare di convincere gli italiani che i politici e i parlamentari non hanno retribuzioni importanti.
Hanno delle retribuzioni importanti, ma non è quello il tema. Il tema è che forse il parlamentare, oggi come oggi, conta molto meno rispetto al passato. E secondo me il parlamentare guadagna di più rispetto ad un sindaco. Oppure un membro del Governo non parlamentare non guadagna come il parlamentare. Ci sono una serie di situazioni che effettivamente varrebbe la pena sottolineare.

A uno come Fassino poi, replica Paolo Cirino Pomicino, il quale dice che il parlamentare si dovrebbe vestire in giacca e cravatta perché “deve avere un atteggiamento e un abbigliamento consono alle istituzioni”. E dovrebbe poi andare in giro con l’auto blu, perché anche questo farebbe parte un po’ dell’apparire e dell’essere un membro delle istituzioni, come se il valore di queste si rispecchiasse nella giacca e la cravatta piuttosto che nella scarpa elegante e non in quella da tennis.
Fassino e Pomicino almeno hanno il merito, strano, di metterci la faccia, ma forse perché sono ormai in uno stato di incoscienza totale.
Però chi pensa davvero che questi pensieri non siano i problemi, allora non ha capito un tubo di quello che sta accadendo nel Paese.

Fassino sventola la busta paga per dire “basta con il populismo”. Ma attento, caro Fassino: tu nei decenni passati le tensioni le hai viste materializzarsi con una grammatica e con delle parole decisamente diverse da quelle che ti infastidiscono e che definisci “populismo”.
Perché in quegli anni la rabbia sociale, la rabbia contro chi rappresentava anche le istituzioni, la rabbia contro i padroni, si è palesata addirittura con una lotta armata, fuori dai cancelli e dentro il partito che lui frequentava: il Partito Comunista.
C’era chi diceva che “sono terroristi, erano compagni che sbagliavano”, salvo poi alla fine capire il senso idiota di quella frase.
Perché il senso idiota, o meglio l’idiozia di quella frase, stava nel tentare di costruire un elemento di congiunzione tra la predicazione folle, fanatica del terrorismo, con l’esigenza di una lotta di classe.

In quegli anni, tra l’altro, fuori dai cancelli, gli operai, strizzavano un po’ l’occhio a quei protagonisti di quella stagione.
Quindi stai attento oggi, caro Fassino, quando parli di queste cose. Lo dico perché siamo in una fase drammatica.
Siamo in una fase in cui qualcuno continua a sobillare per tentare di resistere nel suo status politico: questo vale anche per Conte.
Sta difendendo il reddito di cittadinanza non perché sia giusto in sé, ma perché gli ha permesso di resistere sulla scena politica.
Ma il reddito di cittadinanza era sbagliato, così come oggi. Era un reddito di cittadinanza che stava ripetendo gli errori della cassa integrazione pagata per decenni. Dallo Stato agli operai della Fiat, senza andare a guardare che quegli operai della Fiat ormai avevano un secondo lavoro, lavoravano in nero e quant’altro. Il reddito si era messo su un binario sbagliato, diseducativo e irresponsabile: era giusto cambiarlo. Lo diciamo ai Fassino, ai Conte: state attenti, perché questa è una fase delicata.

La Pietra di Paragone