Erano gli anni 70, la seconda metà. Un momento storico per il nostro paese tormentato dal terrorismo e lotte intestine. Ma allo stesso tempo un momento di grande fermento culturale, di idee e innovazioni. Una delle grandi menti nostrane era proprio Giorgio Gaber, persona e non personaggio, che andava controcorrente, contro il pensiero comune.

A me l’America fa venir voglia di un dittatore, almeno si vede, si riconosce“.

Così Gaber incalza lo spettatore, lo provoca, lo sconvolge, lo allontana da sé per poi catturarlo con precisa maestria nel suo flusso verbale.
Ma come può affermare un concetto simile? davvero Gaber vuole una dittatura? Ovviamente no, quello che vuole dire è che rispetto alle dittature del 900, la nostra civiltà dei consumi è ancor più totalitaria. Quando c’era una dittatura mettevi un volto, un nome e un cognome al dittatore, lo potevi riconoscere e magari organizzare una resistenza fatta con altre idee, con altri valori.

Non ho mai visto qualcosa che sgretola l’individuo come quella libertà lì, nemmeno una malattia ti mangia così bene da di dentro. Te la mettono come la chitarra, ognuno suona come vuole e tutti suonano come la libertà“.

Gaber continua il suo monologo e ci spiega che è la libertà, proprio quella libertà tanto promossa dall’America statunitense, che oggi ancora più di allora ci divora da dentro. La civiltà dei consumi, di matrice nord Americana, assume oggi i contorni di una dittatura invisibile. Nel regime totalitario in cui viviamo oggi, i consumi e i costumi sono omologati e gli individui non si ribellano perché non sanno nemmeno di essere in catene e fanno tutto ciò che vuole l’ordine dominante.

Il commento a ‘Un Giorno Speciale’ di Fabio Duranti e Diego Fusaro.

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