Parto da una recente considerazione di Giorgio Agamben, il quale così ha scritto: ‘Nelle condizioni presenti, la resistenza non può essere un’attività separata, essa non può che diventare una forma di vita. Vi sarà veramente resistenza solo se e quando ciascuno saprà trarre da questa tesi le conseguenze che lo riguardano’. Mi paiono parole degne di un commento perché sono della massima importanza davvero: ci insegnano come la resistenza debba essere praticata concretamente e mutata in stile effettivo di vita. Sicché la resistenza non dev’essere semplicemente teorizzata in astratto in una forma che finisce in ultima istanza per essere massima nella sua enunciazione e minima nei suoi concreti effetti pratici. Al contrario, la resistenza – sulle orme delle parole di Agamben – dev’essere tradotta in stile di vita quotidiano: ciascuno di noi è chiamato a resistere col proprio impegno zelante e con il proprio operato giornaliero, trasformando dunque la resistenza in una precisa forma di vita.

Solo se da un’analisi concreta delle contraddizioni che innervano il nostro presente sapremo trarre la conseguenza della resistenza necessaria, potremo mutare la resistenza in forma di vita concreta, proprio come lo scrivano Bartleby con il suo rifiuto totale, incondizionato e pur garbato di prendere parte all’ordine dominante. La formula dello scrivano Bartleby ‘I would prefer not to prefer’ (‘Preferirei di no’) dev’essere trasformata in stile di vita resistente quotidiano da ciascuno di noi, di modo che tornino a riannodarsi tra loro la teoria astratta della resistenza contro l’ordine iniquo e asimmetrico del global-capitalismo e la concreta prassi quotidiana di resistenza che si incarna nella vita di ciascuno in atti concretissimi, in atti dagli effetti pratici. L’atto di chi dice di no perché ha compreso la falsità dell’intero e insieme riesce a tradurre questa comprensione in un operato effettivo in grado di sortire degli effetti, di produrre delle conseguenze.

Di questo modo, la resistenza potrà diventare una prassi di vita di ciascuno e al tempo stesso dar luogo a una grande resistenza corale, che sappia unificare nella resistenza tutti coloro i quali, per una via o per un’altra, hanno compreso la falsità del tutto e si battono per criticarlo, per superarlo praticamente, per far coesistere fra loro la critica teorica e la sovversione pratica. Ma ciò è possibile se e solo se la resistenza saprà ancorarsi a sua volta all’idea di un futuro riscattato e redento, ossia all’idea di un’ulteriorità nobilitante, all’idea di un futuro rettificato rispetto alla miseria ovunque dilagante. E sotto questo riguardo, i sogni di migliori libertà debbono illuminare il nostro presente, rendendo possibile e praticabile di più doverosa la resistenza di tutti e di ciascuno nella quotidianità della nostra vita.

Solo in questo modo potremo davvero resistere anzitutto contro il teorema neoliberale che predica la libertà essere intransformabile (‘There is no alternative’) secondo quel modus cogitandi generale che diviene spirito del nostro tempo e che ha trovato qualche anno fa la sua incarnazione nel titolo di un fortunato romanzo di Walter Siti ‘Resistere non serve a niente’. E invece sì, resistere serve. Anzi, il primo gesto da compiere è quello della resistenza intellettuale, prendere cioè coscienza del fatto che le cose sono così ma potrebbero essere altrimenti, dacché la realtà è possibilità, e dunque solo dalla nostra capacità di resistere dipenderà la possibilità di creare un futuro redento, sottratto alla prosa reificante della tecnica e della civiltà dei mercati.

RadioAttività, lampi del pensiero quotidiano – Con Diego Fusaro