Bisognerà aspettare il 12 settembre per conoscere il destino dei 130 suidi protagonisti della vicenda della “Sfattoria degli Ultimi“, il rifugio di via Arcore dove è stato contemplato l’abbattimento di inermi animali come argine alla diffusione della peste suina africana.

Il provvedimento era pensato per tutelare gli allevamenti intensivi che servono per l’alimentazione. Non che gli animali siano contagiati, la loro unica “colpa” è quella di trovarsi nella zona rossa, considerata a rischio.

Questi animali non fanno del male a nessuno e nei giorni passati molti cittadini si sono battuti per cambiare il destino di questi animali – animali da compagnia, perché non destinati alla macellazione – e diverse associazioni animaliste sono scese in campo per difendere i suidi sfortunati. Voci che alla fine sono state ascoltate, ancora non c’è niente di sicuro sul loro futuro ma la situazione sta migliorando: in un recente documento firmato dal Ministero, infatti, si legge che le misure previste per il controllo e la prevenzione, tra cui l’eventuale abbattimento, non si applicano per gli ospiti dei rifugi. Auspicabilmente questa situazione si risolverà per il meglio.

Nell’attesa del verdetto il Prof. Paolo Cipollone, veterinario e specialista in Patologia e Clinica degli Animali di Affezione, ha provato a fare chiarezza in quella che sembra una situazione surreale: “Questo problema nasce da un tipo di approccio storico che è quello che il settore ispettivo ha sempre avuto verso le produzioni. Nasce da una sensibilità sociale che nel tempo si modificata e della quale dobbiamo tenere conto. Se un tempo tutto quanto era finalizzato alle produzione e quindi il benessere animale e la vita stessa degli esseri senzienti era posta in secondo piano ora credo che noi dobbiamo avere un approccio diverso. Stiamo parlando di animali sani, di animali che non sono ammalati e che purtroppo per loro si ritrovano all’interno di una zona cosiddetta rossa (un perimetro di circa 10 km) dentro la quale la normativa vigente prevede che venga messo in atto una tabula rasa di tutte quante le specie che possono essere sensibili a questa malattia per impedirne la diffusione. Tutto questo necessita quindi di una rivisitazione da un punto di vista politico di quello che è il rapporto dell’uomo con il territorio e con gli animali.

Cosa possiamo fare, quindi, per limitare queste situazioni? “Il problema dei cinghiali è strettamente collegato ad un aspetto dei nostri centri urbani cioè l’immondizia presente nelle strade provinciali ma anche nei centri urbani (si veda il caso di Roma) che attira queste masse di animali alla ricerca di cibo e quindi crea una promiscuità che va gestita. Serve un’azione mirata, intelligente e lungimirante che non deve essere quella di fare tabula rasa, ma ve tenuto in conto il benessere degli animali. Se noi non cambiamo questo aspetto etico verso gli animali ho la sensazione che questi problemi aumenteranno nel tempo e andranno a ledere il sistema alimentare. Per quanto riguarda l’allevamento protagonista della vicenda, dobbiamo prendere in considerazione il fatto che al momento non presenta soggetti ammalati e quindi mettere in atto le misure per individuarlo come allevamento indenne e non soggetto alla normativa dell’abbattimento. Il problema non termina qui: dovrà essere anche affrontato quello che è il comportamento etico verso gli animali di allevamento. Sulla carta c’è il discorso del benessere ma poi in realtà il benessere dentro l’allevamento industriale cozza con immagini che spesse volte sono venute alla nostra attenzione e che necessitano un cambiamento nell’approccio”.