In un puntuale e dettagliato articolo del quotidiano padronale “Il Corriere della Sera”, ci viene spiegato che il 40% della popolazione è pronto a licenziarsi perché vuole cambiare vita. Moltissimi italiani vogliono licenziarsi perché non più soddisfatti del mondo del lavoro e dei suoi ritmi.

Qualche settimana addietro, gli stessi padroni del discorso, autoproclamati orwellianamente “professionisti dell’informazione”, ci segnalavano con zelo che i giovani non ne vogliono più sapere del posto fisso, che era invece il sogno delle generazioni precedenti. Al contrario, i giovani, secondo i professionisti dell’informazione, preferiscono la fluidità e il precariato, perché queste forme di lavoro sono foriere di migliori stili di vita, più aperti e meno monotoni.

Da questi e da simili articoli il fabula docet che traiamo è il seguente: i giornalisti sono ormai da tempo specializzati nel presentare come chance e come opportunità le sciagure e le disgrazie che si abbattono sui ceti dominati e che sono ormai l’essenza stessa della globalizzazione infelice.

Per inciso, la globalizzazione, che è la madre delle principali tragedie contemporanee, viene essa stessa innalzata dai padroni del discorso a magnifica opportunità di viaggi low cost e di erranza cosmopolitica, sempre omettendo che globalizzazione significa in realtà glebalizzazione: vale a dire immiserimento preordinato dei ceti medie delle classi lavoratrici grazie ai processi di competitività globale, che pure sarebbe meglio appellare cannibalismo senza frontiere.

Non occorre in fondo un dottorato ad Harvard per comprendere che la competitività senza frontiere e senza controllo politico degli stati nazionali non comporta la traslazione dei diritti occidentali verso oriente, come va ripetendo senza regole e senza vergogna il pensiero unico politicamente corretto ed eticamente corrotto di completamento del rapporto di forza capitalistico: al contrario, grazie alle leve della competitività, saranno i lavoratori occidentali a perdere le tutele e le conquiste sociali welfaristiche ottenute con le lotte di classe, a causa della meccanica della competitività stessa, che presuppone che vi sia sempre qualcuno disposto a produrre il medesimo a un prezzo più basso.

Per questo, come da tempo non mi stanco di ribadire, occorre smettere di parlare la lingua dei padroni e iniziare a coniare una lingua del basso per il basso, provando a istituire gramscianamente una contro-egemonia: con ciò intendo una visione filosoficamente strutturata e politicamente articolata in grado di contrastare a livello sia simbolico sia reale la globalizzazione, ossia il dominio di classe della plutocrazia neoliberale fondato sulla competitività senza frontiere nel senso prima sommariamente chiarito.

Contrastando la narrazione dominante, che gli intellettuali organici al capitale producono per indurre i dominati ad accettare con ebete euforia e con resa colma di gratitudine la propria servitù, occorre ribadire che il precariato è la quintessenza dell’alienazione e dello sfruttamento, non certo l’eldorado dei diritti e della vita non monotona.

Come mostrato nel nostro studio “Storia e coscienza del precariato”, il precariato rappresenta un’ulteriore stadio di sviluppo dello sfruttamento capitalistico, ma poi anche un preciso metodo di governo delle persone in chiave neoliberale; sempre ricattabile e impossibilitato a stabilizzarsi nelle forme solide del mondo della vita, il precario è lo schiavo ideale, non certo il fortunato soggetto gaudente della cosmopoli a capitalismo integrale.

Insomma, parafrasando Marx, il precariato non va celebrato, ma va contestato teoricamente e rovesciato praticamente. Analogamente, la perdita di migliaia di posti di lavoro prodotta da quella contraddizione concretissima astrattamente detta capitalismo non coincide con la scelta di soggetti ormai tediati dal lavoro: è invece, bisogna esserne consapevoli, il prodotto necessario della contraddizione sistemica di un modo di vivere e di produrre che si fonda sull’immiserimento e sullo sfruttamento, ma poi anche sempre più evidentemente sulla distruzione dei posti di lavoro.

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