Dal 2008 la percentuale di disoccupati inattivi è salita fino al 43%, con punte anche del 46% nel 2014. Pensare che quasi un giovane su due in Italia sia disoccupato o in attivo, desta quantomeno sconcerto. Il dato peggiore in assoluto è quella della inattività della fascia giovanile. Lungi dal migliorare la situazione, il sistema Euro registra nel 2004 una mediana annua di inattività del 21,94% che arriva al 26,70% nel 2019 e balza al 29,49% nell’anno della pandemia.

Snocciolare questi dati potrebbe annoiare il lettore, tuttavia dall’analisi dei dati si deve partire per una discussione di tipo morale. Sto parlando della disoccupazione giovanile. Il concetto fondamentale che voglio rimarcare è il fatto che è stato inventato un acronimo, NEET, che sta per Neither in Employment or in Education or Training cioè persone, soprattutto nella fascia tra i 25 e 34 anni, che non sono più a scuola e nella formazione professionale. Persone al di fuori di ogni capacità di produrre reddito.

È evidente che queste persone verranno attratte da una spirale negativa, perché man mano che passeranno gli anni, sempre più difficile sarà per loro inserirsi in una situazione stabile. Il dato più allarmante non è tanto il dato della disoccupazione quanto quello dell’inattività, cioè delle persone che hanno rinunciato a cercare un lavoro e questo tipo sono arrivate ad essere il 29,49%. Quando il 30% dei giovani è inattivo, cioè quasi un giovane su tre, questo è un paese che non può avere futuro.

Malvezzi​ Quotidiani, pillole di economia umanistica con Valerio Malvezzi