I famosi documenti dei Pentagon Papers vengono pubblicati nel 1971 dal New York Times, segnando uno punto di svolta nell’universo giornalistico e politico. La Guerra in Vietnam andava male, all’epoca il Presidente Nixon non voleva che le informazioni scottanti venissero rese pubbliche. E qual è il miglior modo per nascondere la verità al popolo e, allo stesso tempo, salvaguardarsi politicamente? Una sola formula: censura. Censura dei fatti avvenuti nelle trincee, dove in quell’occasione giovani militari stavano sacrificando la loro vita invano, la guerra era persa in partenza ma nessuno aveva avuto il coraggio di denunciarne le atrocità che continuavano a perpetrarsi, senza proposte di negoziazioni di pace. Tranne una persona, il giornalista Daniel Ellsberg che, essendo un inviato di guerra, raccolse le informazioni sufficienti per avere la consapevolezza e il coraggio tale da pubblicare e rendere partecipe il mondo di ciò che stava accadendo nel lontano Vietnam: gli americani stavano perdendo e le vite venivano strappate dalle bombe nemiche senza rimorsi.

Ed è stato proprio il giornalista a fotocopiare dei documenti top secret che svelavano le atrocità commesse per poi spedirli al New York Times che, ponendo la verità come principio fondante della democrazia, pubblicò per primo tutto, scatenando una bufera sotto tutti i punti di vista in America e nel resto del mondo.

È proprio The Post, il film di Steven Spielberg del 2017, che ricorda la storia rimanendo fedele ai fatti ed evidenziando soprattutto il ruolo avuto anche da un altro giornale, il Washington Post. Fabio Duranti ripercorre in diretta le tappe storiche e il corrispettivo momento cinematografico spielberghiano per evidenziare il momento preciso nel quale ci fu “la prima forma di censura nei confronti della libera stampa nell’Occidente”.

Ma qual è stato allora il ruolo del Washington Post? “Le informazioni vennero date in primo luogo al New York Times e l’ira di Nixon e di tutto l’establishment governativo (ovviamente anche politico-economico), si riversò contro quel giornale. Si riversò una valanga di fuoco contro il giornale e vennero assoldati giudici federali che intimarono il New York Times di non diffondere più notizie”. Quella parte della politica e del sistema giudiziario trovò però un degno avversario: Ellsberg inviò tutti i documenti alla redazione del Washington Post, “da lì c’è una grande disputa interna sulla pubblicazione, sulle spalle dell’editore, all’epoca donna e ancora in un momento di discriminazione ideologica sui ruoli di genere. Alla fine lei, assieme al direttore, decide di pubblicare i documenti, andando contro le disposizioni del giudice. Rischiando gravi danni sia economici che giudiziari. Di fronte a questa preoccupazione invece coraggiosamente li pubblicarono”. Duranti così ricorda che “La stampa serve chi è governato, non chi governa”.

Nonostante le continue e incessanti persecuzioni di Nixon dell’epoca, sia verso i due giornali ma anche nei confronti dello stesso Ellsberg, i giornali hanno espresso solidarietà verso il Washington e il Times pubblicando a loro volta i Pentagon Papers. Solidarietà, verità e giustizia alla fine hanno vinto. Una volta che il processo contro la pubblicazione dei documenti arrivò fino alla Corte di Cassazione, i giudici emettono una sentenza definitiva a favore della stessa pubblicazione, rimanendo fedeli ai dettami della Costituzione e ribadendo il concetto che ‘la stampa deve servire chi è governato, non viceversa’.

“E’ dovuto arrivare un altro scandalo, il Watergate, per far dimettere Richard Nixon dalla Presidenza degli Stati Uniti. Quella è stata una grandissima prova per gli Stati Uniti, che di lì in avanti hanno compreso l’importanza della stampa libera”. Sicuramente la vicenda dei Pentagon Papers ha portato alla luce l’importanza della libertà di espressione, assieme a quella di stampa, ma soprattutto ha reso l’opinione pubblica consapevole di un fatto importante: l’informazione, se non difesa e diffusa correttamente, rischia di diventare strumento di potere politico e giurisdizionale: “Ancora oggi, lì la stampa è sicuramente più libera che qui da noi perché anche le stesse aziende vengono qui a imporre le loro regole dittatoriali. Google, Facebook, YouTube. Noi abbiamo delle controversie con loro e vedremo se i giudici avranno qui lo stesso coraggio dei giudici della Cassazione di dichiarare che quello che diciamo non deve essere censurato e/o demonetizzato”.

Ecco l’analisi completa in diretta di Fabio Duranti.