Nel dibattito sul futuro dell’Europa riaffiora un sentimento che non è più soltanto scetticismo: è saturazione. La sensazione che un’intera architettura politica continui a muoversi per inerzia, mentre popoli e governi arrancano sotto una griglia di vincoli ormai percepita come paralizzante. È su questo crinale che si colloca l’analisi di Alberto Contri e Gabriele Guzzi ai microfoni di Un Giorno Speciale: l’Unione Europea ha smarrito il suo tempo, e insiste a imporre la propria cornice normativa come se nulla fosse cambiato. Una macchina istituzionale che procede per automatismi, mentre attorno si accumulano sfiducia, disaffezione e segnali di rottura.
Per Contri, docente di comunicazione sociale, il cuore del problema è un fenomeno che definisce senza esitazione “progressiva cessione di sovranità”. Una delega continua e ormai interiorizzata, che tocca tutti i piani decisionali, fino a formare quella che descrive come una morsa politico-burocratica. L’accelerazione impressa negli ultimi mesi dal vertice europeo appare quasi surreale: dalla costruzione di nuove strutture d’intelligence comune ai maxi-investimenti per il riarmo, in un contesto internazionale che a suo giudizio non giustifica l’enfasi emergenziale.
Nel delineare il rapporto tra governi nazionali e Bruxelles, Contri ricorre a immagini crude: “Ti fanno la pipì sugli stivali e poi ti dicono che piove”. È un modo di sintetizzare la distanza tra la retorica europeista e ciò che percepisce come una gestione paternalistica, che riduce gli stati membri a esecutori di linee fissate altrove. Un quadro che definisce “una camicia di forza”, destinata – sostiene – a produrre sempre più dissenso.
Contri insiste su un punto: qualcosa dentro l’Unione sta già scricchiolando. Lo mostrano gli episodi recenti in cui la maggioranza europea è andata sotto in aula, o le immagini – diventate virali – della Presidente von der Leyen che parla davanti a un’emiciclo quasi deserto. Un segno, per lui, non solo di disaffezione politica ma di vuoto simbolico: l’Europa continua a parlare, ma non c’è più nessuno disposto ad ascoltare.
La sua preoccupazione principale riguarda la deriva regolatoria, il tentativo di costruire nuovi strumenti come lo “scudo democratico”, apparati di controllo informativo e definizione della verità pubblica. Contri lo definisce un passo ulteriore verso una Europa-arbitro, non più comunità politica ma meccanismo di sorveglianza culturale. Una deriva che, osserva, non trova argini nemmeno nelle più alte cariche italiane: “Non si capisce perché ogni due per tre dobbiamo dare più sovranità all’Europa”, afferma. Una traiettoria, a suo avviso, insostenibile.
Se Contri si concentra sugli effetti, Guzzi aggredisce le cause: secondo l’economista e saggista, l’UE è semplicemente un’istituzione nata in un altro mondo. Un progetto concepito tra anni Ottanta e Novanta, in piena egemonia di teorie economiche che oggi persino gli Stati Uniti – dove quelle teorie erano state elaborate – hanno di fatto superato. L’Europa invece resta, dice Guzzi, come il soldato giapponese nella foresta: “Combattiamo una guerra finita da dieci anni”.
A suo giudizio, l’intero impianto europeo continua a sostenersi su narrazioni rituali, prive di sostanza: il green come orizzonte quasi religioso, il Next Generation EU come promessa redentrice, i “valori europei” da difendere “fino all’ultimo ucraino”. Una retorica che tenta di colmare un vuoto di legittimità. Da qui l’immagine più radicale: citando Gallino, Guzzi parla dell’Unione come di un “dispotismo”, una struttura che nasce esplicitamente per disattivare i principi democratici degli stati europei. Non una degenerazione, ma un’impostazione originaria: “Nasce esattamente come uno strumento per disattivare i principi fondanti ed essenziali delle democrazie europee, e lo fa esplicitamente. E’ ovvio che ora, in questo contesto, deve ridarsi una direzione, la direzione è la guerra, il riarmo come soluzione economica e politica di una crisi, ma il popolo non sembra seguirla”.
Cosa fare quindi? “Io metto sul tavolo due ipotesi: la prima è quella di cui parlano i federalisti, cioè l’unione politica. Dal mio punto di vista questo non solo non conviene all’Italia, ma poi è impossibile da un punto di vista filosofico: chi è il popolo costituente? Non c’è. Non c’è un’opinione pubblica, non c’è una lingua comune, dal Portogallo all’Estonia che Stato vuoi fare? Lo fa la Von der Leyen e in tempi di pace?
Io suggerire i invece a queste classi politiche di farsi un bagno d’umiltà e guardarsi allo specchio, poi andare in senso opposto: ridare sovranità agli Stati e poi, nel tempo, nella gradualità politica autentica, immaginare forme di collaborazione e cooperazione, perché non è che dopo l’Unione Europea c’è la guerra atomica tra l’Italia e l’Austria, chi lo pensa è in malafede”.
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