L’ambasciatrice Elena Basile insiste su un punto che attraversa la nostra epoca come una fenditura: ciò che continuiamo a chiamare democrazia sarebbe ormai una forma politica svuotata, ridotta a oligarchia liberale con tendenza autoritaria. La trasformazione non è improvvisa, né frutto di complotti. È il risultato di un lento smantellamento dei corpi intermedi, delle strutture collettive e dei luoghi in cui si formava coscienza politica. È in questa faglia — tra rappresentazione e potere reale — che si gioca la crisi contemporanea.
Le democrazie del dopoguerra erano sistemi pluralistici, sostenuti da partiti di massa, sindacati, blocchi sociali contrapposti e riconoscibili. Basile ricorda che esisteva “una dialettica tra capitale e lavoro”, con partiti che rappresentavano interessi sociali distinti.
Oggi questo pluralismo si è ristretto fino a ridursi a un duopolio fittizio. “Democratici e trumpiani rappresentano più o meno lo stesso blocco economico-sociale”, afferma, richiamando l’enorme costo delle campagne elettorali negli Stati Uniti: “Solo famiglie molto ricche possono davvero influenzare la politica”. La democrazia resta come procedura, ma non più come conflitto reale.
L’Europa replica la stessa dinamica. Da una parte partiti socialdemocratici e progressisti legati ai democratici americani, dall’altra destre che guardano a Trump. “Viviamo ormai in società oligarchiche”, sostiene Basile, “nel senso che il potere è nelle mani dello stesso blocco economico-sociale”. Chi resta fuori? Piccola impresa, impiegati pubblici, classe lavoratrice, emarginati. Il sistema li invoca elettoralmente, ma non li rappresenta. “Le democrazie del secondo dopoguerra si stanno avvicinando a essere oligarchie liberali, ma con tendenza all’autoritarismo”. Un autoritarismo dolce, che non vieta il dissenso: semplicemente lo rende irrilevante.
Il nodo emerge con forza sul terreno internazionale, in particolare nella gestione della questione palestinese. Basile ricorda di essere stata attaccata quando denunciò la “disumanizzazione dei palestinesi”, che definì espressione di “logiche naziste”. Oggi osserva che quelle stesse parole “sono ripetute quasi ovunque”, segno di un ritardo morale dell’opinione pubblica. Il riferimento a Primo Levi non riguarda la comparazione storica, ma la struttura etica: “Nel Lager la sopravvivenza cancellava la solidarietà”, dice. Così, nella società liquida, “sono morti i sindacati, i partiti, le parrocchie”: ognuno è lasciato alla propria lotta individuale. Se scompare la dimensione collettiva, scompare anche la capacità di dire no.
Il punto inatteso è la piazza. Di fronte al massacro di Gaza, “le persone sono scese spontaneamente”, senza organizzazioni. Basile intravede qui un segnale: una generazione che riconosce un’ingiustizia globale e la rifiuta. Ma avverte: “Quello che accade a Gaza non è un episodio isolato, è il frutto di una politica occidentale, imperialistica, con governi europei complici”. Il nuovo “nemico” per Basile è “colui che non si allinea alle logiche belliciste filoatlantiche e filoisraeliane”. La domanda è semplice e vertiginosa: questa energia saprà trasformarsi in politica, oppure si dissolverà come le altre. La risposta non c’è. Ma la crepa, per la prima volta da anni, si vede.
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