Da Motta a Tudor: i volti sulla panchina della Juve continuano a cambiare. Ma la musica, purtroppo, rimane sempre la stessa. Quella dei bianconeri risuona come una melodia che inizia con fiati potenti e tamburi battenti, solo per poi spegnersi sistematicamente, e mestamente, all’inizio del secondo tempo. Come se qualcuno staccasse effettivamente la spina durante l’intervallo.
I numeri raccontano di un cambiamento della guida tecnica che, almeno finora, ha il sapore della continuità piuttosto che di una vera svolta. Da quando è tornato a Torino, infatti, Igor Tudor ha fatto registrare una media di 1,83 punti a partita, nelle sue prime sei uscite in campionato. Mentre Thiago Motta si era fermato a 1,80, dopo 29 giornate. Si tratta di una differenza davvero minima: solo 0,03. E conoscendo il tecnico ex Lazio – noto per non essere propriamente un amante dei compromessi (per usare un eufemismo) – non viene difficile immaginare la sua fatica ad accettarla.
Non a caso, alla vigilia dell’1-1 contro il Bologna, ha avuto modo di confermare la sua indole altamente agonistica e mirata (sempre) al successo: “Non ho mai giocato per il pareggio”.
Ma la realtà, fatta di squalifiche, infortuni e una corsa affannosa per il quarto posto, spesso sa essere molto distante dalle nostre reali intenzioni. E a quanto pare, nella sua confusione attuale, il contesto della Continassa lo ha costretto evidentemente a una serie di compromessi che fanno sembrare questa Juve più una squadra in mera gestione, piuttosto che un gruppo in rivoluzione.
D’altronde, direte voi, è stato ingaggiato come traghettatore, e come tale si sto comportando. Il problema, però, non è solo la media punti. Piuttosto, ciò che preoccupa maggiormente in ottica quarto posto, è il modo in cui quei punti vengono guadagnati – o persi.
Con Tudor in panchina, la Juve gioca un calcio quasi ‘bipolare’: abbastanza brillante e solido nei primi tempi, fragile e rinunciatario nella ripresa.
Nei sei match finora disputati, i bianconeri avrebbero raccolto 15 punti su 18 giocando solo i primi 45 minuti. I secondi tempi, invece, sono una condanna: tre pareggi, tre sconfitte, zero vittorie. Solo il Monza ha fatto peggio nella seconda metà di gara. Anche il dato sui gol è inquietante: tutte e 7 le reti segnate sono arrivate sempre e solo durante le prime frazioni di gioco.
Una vera e propria inversione a ‘U’ rispetto all’era Motta, dove la squadra spesso dava il meglio di sé nella ripresa: settima nei primi tempi, quarta nei secondi. Ma visto il simile rendimento (almeno aritmetico) dei calciatori sotto la guida dei due allenatori, la domanda sorge spontanea: non è che, forse, il problema non è necessariamente l’allenatore di turno?
Guardiamo al presente, ad esempio. La filosofia tattica di Tudor richiede alla squadra un tipo di gioco molto dispendioso dal punto di vista fisico: pressing alto e riaggressione continua. Ma la rosa – spesso ridotta all’osso – sembra non essere in grado di reggere l’urto. La Juve corre bene, ma solo finché ha fiato. Poi cala, gestisce (o almeno ci prova) e si sgonfia come un palloncino.
Anche il tecnico croato ha sottolineato indirettamente questo aspetto. Quando? Per ricordarselo basta tornare a quando Tudor ha elogiato la fisicità del Bologna, un fattore chiave nel calcio moderno. Tradotto: la Juve non ha “quella roba lì”. E il rischio è che, anche cambiando i nomi sulla panchina, rimanga intatto il limite strutturale di una rosa costruita per un calcio diverso da quello che si vorrebbe giocare adesso.
A tre giornate dalla fine, con la corsa Champions in pieno svolgimento e quattro squadre racchiuse in pochissimi punti, questi dettagli possono fare tutta la differenza. Perché se è vero che “vincere è l’unica cosa che conta”, come ricordava Boniperti, giocare solo metà partita non è mai bastato a nessuno. E forse, per la Juve di oggi, non basta nemmeno cambiare allenatore.
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