Iniziata per la Roma dove l’Europa sta per diventare Asia, vale a dire a Trebisonda, questa Coppa riporta l’Europa in Italia, come più nessuno dal 2010 era più riuscito a fare, nel nostro calcio e per il nostro calcio. E riporta il numero canonico di competizioni UEFA a tre, vale a dire quello della tradizione, suffragata da decenni di fascino inimitabile.
Quella sera umiliante in Norvegia, dopo un 6 – 1 che soltanto la vittoria finale ha potuto far metabolizzare a tutti i romanisti, era sembrato che Mourinho stesse frustando e frustrando a parole la sua creatura, quand’era ancora un embrione. Che già prendesse le distanze dalla Roma. In realtà erano, quelle parole, la pietra di posa, la prima, per edificare una mentalità nuova, tanto orgogliosa quanto a suo modo spietata.
Alla fine, hanno parlato i fatti: questo signore, atterrato a Ciampino alle 14.32 di un 2 luglio madido di sudore e d’attesa, su un jet privato pilotato da Dan Friedkin, dopo dieci mesi ha condotto la Roma ad alzare un trofeo; attraverso di esso, ha regalato all’Italia una sussulto di blasone e d’importanza. E anche i fatti, se permettete, sono tìtuli, a differenza delle chiacchiere.
Paolo Marcacci
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