La premessa è che tutte le società di calcio dovrebbero far osservare ai propri tesserati un decalogo comportamentale molto più rigido e particolareggiato, ammesso che ne abbiano già uno e che qualcuno lo legga, riguardo all’uso dei social network, visto che in ogni caso ci va di mezzo l’immagine del club di appartenenza.
Anche soltanto per un “like”: ogni rifermento a Zaniolo è puramente voluto, in questo caso.
Detto questo, non tutte le esternazioni a mezzo social dei calciatori hanno lo stesso peso specifico, in termini di imbarazzo. Un conto è esternare gradimento verso uno sfottò che la propria tifoseria rivolge a una avversaria, o lamentarsi in tempo reale di una decisione arbitrale; altro conto pronunciarsi su una spinosa questione internazionale che chiama in causa innanzitutto i diritti umani, oltre che gli equilibri politici.
Non possiamo sapere, anche se potremmo supporle, a quali pressioni siano soggetti i cittadini turchi che godono di una certa popolarità all’estero, calciatori in primis, avendo però i familiari che ancora vivono in Turchia, sotto il regime (non ci vengono in mente sinonimi) di Recep Tayyp Erdogan.
In realtà basterebbe ricordare la storia di Enes Kanter, il cestista dei Boston Celtics che, per aver esternato una convinta ostilità nei confronti del governo del suo paese si è visto rinnegare dai propri familiari, tramite una lettera che suo padre ha inviato a Erdogan, dopo una serie di minacce e vessazioni che, ad ampio spettro, avevano colpito tutti quelli che, direttamente o indirettamente, avevano avuto rapporti o anche solo contatti con lui, fosse anche la firma di un autografo su un poster.
Quello che invece possiamo affermare con nettezza è che i club di appartenenza dovrebbero manifestare una presa di distanza perentoria dalle esternazioni politiche dei loro tesserati, visto che non si possono censurare le opinioni, per quanto discutibili.
Nel caso specifico di Ünder, poi, c’è la confusione totale delle varie simbologie: posta la foto in cui omaggia il regime turco con il saluto militare indossando la maglia della Roma.
A livello semiotico, cioè riguardante il sistema dei segni, una forzatura insopportabile: tira dentro il club, provocando l’inevitabile associazione tra i colori giallorossi e la presa di posizione politica, del tutto personale.
Associazione insussistente, in realtà, ma al tempo stesso evidente, manifesta, se ci si sofferma al post.
Per più di un motivo, la Roma dovrebbe pronunciarsi con nettezza, sperando che questo avvenga mentre queste righe sono in scrittura: in primis perché una società così impegnata, negli ultimi anni, su temi inerenti la salvaguardia dei diritti umani e il rifiuto di ogni discriminazione etnica o religiosa, non può nemmeno lontanamente essere accomunata a ciò che si sta perpetrando sulla pelle del popolo curdo siriano nei territori del Rojava.
In secundis, perché la maglia di un club non può essere strumentalizzata, nemmeno per sbaglio, in nome di una qualsivoglia presa di posizione politica.
Almeno questo la Roma dovrebbe farlo: salvaguardare la propria identità, puntualizzando: “Non in mio nome, non nella mia maglia”.
Paolo Marcacci
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