Il rinvio dello stop ai motori termici entro il 2035 da parte dell’Unione Europea diventa, nel dibattito pubblico, una cartina di tornasole di qualcosa di più profondo: il cortocircuito tra decisioni politiche, narrazione propagandistica e interessi nazionali. Ai microfoni di Un Giorno Speciale, il caso del cartello celebrativo di Antonio Tajani diffuso via social è solo la miccia per mettere a fuoco una dinamica ormai strutturale: trasformare scelte complesse in slogan da curva.
A sollevare la contraddizione è Fabio Duranti, che legge l’autocelebrazione come un esercizio di rimozione politica: “Avete votato tutti i provvedimenti del Green Deal e adesso parlate di vittoria perché si rimanda lo stop. Vittoria di che cosa?”. L’obiezione non è tecnica ma politica: rivendicare un risultato su un impianto normativo che si è contribuito a costruire significa, secondo Duranti, eludere il nodo centrale della responsabilità.
Nel merito interviene Giorgio Bianchi, allargando il discorso alla credibilità delle istituzioni: “Un ministro degli Esteri che dice che il diritto internazionale vale fino a un certo punto fa sorridere amaramente”. Il tema non è l’opinione personale, ma il ruolo. “Un rappresentante della diplomazia non può parlare come un ubriaco al bar”, osserva, sottolineando il doppio standard tra ciò che è consentito al potere e ciò che viene sanzionato nel dibattito pubblico.
Sul terreno dell’auto elettrica, la discussione si spoglia dell’ideologia. Duranti rivendica una posizione pragmatica: l’elettrico può funzionare, ma non può diventare un obbligo. “Io giro in elettrico per convenienza, perché produco energia, perché mi sono organizzato. Questo non vuol dire che devi obbligare tutti gli altri”. La tecnologia, ammette, è migliorabile, ma il vero problema è l’estremizzazione: “Mettere in scena Roma-Lazio anche su questi temi è follia totale”.
Bianchi ricompone il quadro con una chiave analitica: “La propaganda serve a polarizzare”. Come nel calcio, due curve opposte si fronteggiano, mentre il buonsenso resta schiacciato ai margini. Il rischio, avverte, è sistemico: “Quando il tifo da stadio entra nell’agenda green, nella guerra, nell’energia, non vince nessuno. Se vai contro l’industria nazionale e gli interessi del Paese per ideologia, emergono problemi colossali”. Dal caso Volkswagen alla politica energetica, il punto resta uno: la squadra, nella vita reale, dovrebbe essere lo Stato, non una fazione.
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