La gaffe di Nicola Gratteri a La7, dove il procuratore ha citato come autentica una falsa intervista a Giovanni Falcone diffusa nei giorni precedenti, è diventata molto più di un inciampo televisivo. È il punto di contatto tra tre elementi inquieti del discorso pubblico italiano: la fragilità della memoria collettiva, la potenza virale delle narrazioni costruite, e la tendenza a trasformare il dibattito giudiziario in spettacolo.
Nel pieno di questa distorsione si inserisce la lettura di Boni Castellane, editorialista de La Verità, che non punta il dito per l’errore in sé, ma per ciò che l’errore rivela: un Paese in cui perfino il patrimonio simbolico di Falcone può essere brandito senza verificarne l’autenticità. E il suo ragionamento diventa un grimaldello per mettere in discussione il nostro rapporto con la verità.
Per Boni Castellane, il problema non è l’imprecisione, ma il contesto culturale che la rende possibile. “Se anche figure come Gratteri cadono in trappole del genere, vuol dire che la memoria di Falcone non è più un territorio sacro ma un terreno di contesa”, afferma. E aggiunge che la trasformazione della storia recente in un arcipelago di contenuti virali rischia di sabotare proprio ciò che Falcone rappresentava: la precisione, il rigore, la responsabilità nella parola pubblica. Il punto è chiaro: la memoria antimafia non può essere trattata come un hashtag.
Boni Castellane individua nella velocità dei media e nella loro logica di amplificazione continua un fattore determinante. “In un ecosistema dove tutto deve diventare immediatamente condivisibile, non c’è più tempo per controllare la fonte. E così un falso ottiene statuto di verità solo perché circola più velocemente della smentita”, spiega. La gaffe di Gratteri, in questa lettura, non è un incidente isolato, ma l’effetto collaterale di un ambiente informativo in cui la viralità pesa più dell’autorevolezza. E dove la verosimiglianza ha sostituito la verità.
Non c’è solo un difetto di verifica, ma un uso strategico dell’immagine di Falcone. “Falcone è diventato una specie di passepartout morale: lo si cita per rafforzare qualsiasi posizione, anche quando non c’entra nulla”, sostiene Boni Castellane. È un modo per legittimare un discorso attraverso un’autorità indiscutibile, ma il risultato è opposto: svuotare quell’autorità, renderla disponibile a qualsiasi reinterpretazione, perfino a una costruita ad arte. Il rischio, secondo lui, è che Falcone smetta di essere un faro e diventi un pretesto.
Per Boni Castellane, la vicenda dovrebbe diventare un campanello d’allarme. “Se non recuperiamo un’etica della verifica, la sfera pubblica diventerà una discarica di contenuti dove tutto vale e niente pesa”, osserva. L’errore di Gratteri non viene letto come un attacco personale, ma come sintomo di un problema più profondo: la perdita di centralità della responsabilità nella parola, quella che Falcone incarnava e che oggi appare sempre più fragile. In questo, conclude Boni Castellane, la vicenda non riguarda il procuratore, ma noi: che uso facciamo della memoria, e quanto siamo disposti a difendere la verità in un tempo che premia solo la velocità.
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