L’energia solare cresce ovunque e le rinnovabili hanno da poco superato il carbone come principale fonte globale. Ma da sole, almeno per ora, non riescono a coprire il fabbisogno energetico mondiale. Il nodo è la continuità e la capacità di produzione: il sole non splende sempre, il vento non soffia ovunque, la rete è fragile. Da qui nasce la domanda che accompagna da anni ricercatori, governi e industrie: dove troveremo l’energia che sostituirà definitivamente i combustibili fossili?
Una delle risposte più ambiziose si trova nel sud della Francia, in Provenza. È ITER, il più grande progetto scientifico internazionale per scopi pacifici dopo la Stazione Spaziale Internazionale, nato negli anni della distensione fra Gorbaciov e Reagan come simbolo di cooperazione globale. L’obiettivo è semplice da dire e quasi impossibile da realizzare: riprodurre sulla Terra la reazione che alimenta il Sole, cioè la fusione nucleare.
Lo spiega l’ingegner Pietro Barabaschi, direttore generale di ITER: “Si sapeva già allora che nessun Paese da solo sarebbe stato in grado di costruire qualcosa di questa complessità. ITER è nato per unire le forze”. Oggi al progetto partecipano 33 Paesi, che rappresentano più della metà della popolazione mondiale.
Al centro di ITER c’è un reattore chiamato Tokamak, una gigantesca camera a forma di ciambella nella quale deuterio e trizio – isotopi dell’idrogeno – vengono portati a 150 milioni di gradi, dieci volte la temperatura del centro del Sole. A quelle condizioni la materia diventa plasma, il suo quarto stato.
Per tenerlo sospeso senza toccare le pareti – che al contatto si vaporizzerebbero – servono magneti superconduttori raffreddati a -269°C.
Una sfida in cui convivono il freddo più estremo e il calore più inaccessibile dell’universo, separati da pochi metri. Molti di questi magneti, tra l’altro, sono stati costruiti in Italia: “Non ci sono molte aziende al mondo in grado di farlo. È un fiore all’occhiello italiano” sottolinea Barabaschi.
È importante chiarirlo: ITER non alimenterà nessuna città. Servirà a dimostrare se la fusione è scientificamente e tecnologicamente realizzabile. “ITER produrrà 500 milioni di watt di energia termica, ma non elettrica. Il suo scopo è creare le conoscenze per costruire il reattore che verrà dopo” spiega l’ingegner Mario Merola, vice capo dipartimento servizi di ingegneria.
In altre parole: ITER è il prototipo del prototipo. Il punto in cui si prova, si sbaglia, si impara. Se funziona, allora arriverà la generazione successiva: gli impianti elettrici da fusione.
A differenza della fissione, la fusione non può “sfuggire di mano”. Non c’è reazione a catena. Non c’è massa critica. Se qualcosa va storto, si spegne. “È come un fornello a gas: si chiude il gas, la fiamma si spegne” dice Merola.
E la quantità di combustibile in gioco è ridicola: uno o due grammi di plasma. Non abbastanza per causare alcuna conseguenza grave. Il prodotto finale della reazione, inoltre, è elio, un gas innocuo.
ITER è ancora lontano dall’essere il motore del mondo. La fase sperimentale comincerà nei prossimi anni, e solo dopo si capirà quanto tempo servirà per arrivare a impianti commerciali. “Non voglio dare false aspettative” avverte Barabaschi. Ma resta il punto:
se la fusione funziona, non cambierà solo l’energia. Cambierà la storia dell’umanità.
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