C’è chi li chiama “social”, ma di sociale non hanno nulla. Sono società private, create per fare soldi e manipolare l’opinione pubblica. La libertà che promettono è un’illusione. E la censura, ormai, è il loro vero algoritmo.
All’interno dei cosiddetti social network, tutto si confonde. “Ognuno dice la sua, si sparano le penne, la reputazione e la qualità sono prossime allo zero.” Ci sono persone serie, certo, ma finiscono mescolate in un mare di falsità, account fake e contenuti manipolati.
Per questo le persone hanno perso fiducia. Credono di essere informate, ma vengono solo trascinate da flussi di contenuti anonimi, progettati per distrarre. In un contesto del genere, le voci note e riconoscibili — radio, televisioni, testate indipendenti — restano un punto di riferimento essenziale.
Non illudiamoci: i social non sono piazze libere. Sono piattaforme controllate, dove la priorità non è informare, ma monetizzare e orientare il pensiero. Lo hanno detto gli stessi dirigenti che se ne sono andati denunciando dall’interno la logica del sistema. “L’unica intenzione è fare denaro e manipolare l’opinione pubblica. Non è certo fare il bene della popolazione.” Durante il periodo Covid, lo abbiamo visto chiaramente: la censura era al centro degli interessi di Big Tech. Zuckerberg e gli ex dirigenti di Google e YouTube hanno ammesso di aver ricevuto indicazioni dirette dai governi. Ordini che hanno eseguito. E quando Elon Musk ha acquistato Twitter, ha tirato fuori i Twitter Files: le prove di quella censura sistematica.
Oggi X (ex Twitter) è l’unico spazio con un minimo di respiro, ma anche lì gli algoritmi restano strumenti imperfetti. Se un gruppo di segnalatori decide di colpire qualcuno, il sistema reagisce automaticamente e blocca, censura, silenzia. Lo abbiamo visto anche con l’account di Marcello Foa. La verità è che la macchina non sarà mai più onesta dell’uomo. Per quanto la si istruisca, resta programmabile, quindi manipolabile. L’essere umano, con tutte le sue contraddizioni, rimane più enigmatico e libero.
Chi vuole davvero informarsi deve scegliere. Dare fiducia a un media, a un conduttore, a un giornalista — e verificare nel tempo se quella fiducia è meritata. Ma la fiducia non è adesione ideologica: è sapere che chi ti parla è in buona fede, che non risponde a lobby, editori o padroni. Un tempo la libera informazione era quella in cui l’editore ti dava penna e microfono dicendoti: “Vai, racconta”. Oggi ti dice cosa devi dire. Noi ci siamo opposti a tutto questo, anche a costo di scontrarci con giganti come Google e YouTube. Perché se non si può criticare un potere, non si è più in democrazia. Si è solo in un algoritmo che decide per noi cosa è vero e cosa no.
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