Gli Stati Uniti hanno recentemente ridefinito la mappa globale dei dazi doganali, proclamando una vera e propria “rivoluzione tariffaria” che sta scuotendo le fondamenta del commercio internazionale. Mentre la Casa Bianca annuncia con toni trionfalistici la necessità di “riequilibrare” lo scambio mondiale e riportare la produzione entro i propri confini, l’Unione Europea — capitanata da Ursula von der Leyen — appare più che mai nelle vesti di semplice spettatrice, subendo da Washington condizioni che definire penalizzanti è un eufemismo.
I nuovi dazi statunitensi vanno da un minimo del 10% fino a picchi del 50% per paesi “nemici”, come la Cina, ma anche storici partner come il Brasile e gran parte dell’Asia e dell’Africa non sono stati risparmiati dalla scure protezionistica di Trump. Le tariffe verso il blocco europeo, definite dopo un lungo braccio di ferro, si attestano su un livello medio del 15% sulle esportazioni verso il mercato USA, con punte ancora superiori per comparti strategici come acciaio, alluminio e rame, dove si rimane sull’ineffabile 50%. Il tutto mentre le esportazioni europee, già colpite da una crescita stagnante, vedono erodersi ulteriormente competitività e margini di profitto. Il risultato ottenuto da Ursula von der Leyen, celebrato come uno “scudo alla guerra commerciale”, nasconde invece una realtà impietosa: il nuovo dazio del 15% rappresenta un triplo salto mortale all’indietro rispetto alle condizioni precedenti (media UE 4,8%) e graverà come un macigno su migliaia di imprese già provate da crisi e incertezza (se non si aumenta il potere d’acquisto).
Inutili le rassicurazioni sul fatto che “le tariffe avrebbero potuto essere peggiori”: l’Europa, dopo mesi di battaglie, è riuscita solo a strappare un “male minore”, rassegnandosi ad accettare le condizioni calate dall’alto da chi tiene realmente il coltello dalla parte del manico. E mentre la Commissione brinda a una “stabilità ritrovata”, negli ambienti industriali si levano voci di preoccupazione per il rischio concreto di vedere sparire dal mercato statunitense molte eccellenze europee, schiacciate dalla nuova imposta di ingresso. La lungimiranza strategica di Bruxelles, evidentemente, si manifesta nel condurre estenuanti trattative per accontentarsi delle briciole, mentre altre realtà, ben più piccole e meno inclini a sottostare ai diktat degli apparati eurocratici, riescono a ottenere risultati clamorosamente migliori.
Emblematica, a tal proposito, è la parabola di un paese grande meno della metà della regione di Bruxelles: “Volevo fare i complimenti alla Repubblica di San Marino, che ha ottenuto dazi migliori di Ursula Von der Leyen”.
Quello che fa notare il prof. Antonio Rinaldi a ‘Un Giorno Speciale’ corrisponde a verità: la Repubblica di San Marino è terra di confine avvolta dal fascino della storia ma evidentemente provvista di una classe dirigente con maggiore acume negoziale rispetto a certi “grandi” d’Europa. I nuovi accordi commerciali sanciti dagli Stati Uniti prevedono per San Marino un dazio del 10%, la quota più bassa applicata dalla nuova dottrina tariffaria americana, addirittura la metà rispetto a quanto imposto all’UE guidata dalla von der Leyen. L’ironia della sorte vuole che, mentre Roma e Parigi si affannano per evitare la tempesta, San Marino venga “perdonata” da Washington, acquisendo un vantaggio competitivo che fa già gola a decine di aziende europee pronte a spostare le proprie operazioni sulla rocca titana per schivare l’ennesima tassa prodotta dalla lungimiranza europea.
Ma forse è questo il capolavoro della Commissione: rendere San Marino, enclave tra i più grandi paesi dell’UE, un modello di successo nel rapporto con l’America.
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