Negli ultimi giorni, diversi quotidiani italiani hanno riportato in prima pagina un presunto boom di decessi legati all’ondata di caldo. Le cifre parlano di centinaia di morti in eccesso tra Milano e Roma, con toni allarmistici che richiamano alla memoria altre emergenze recenti. Tra le voci più critiche, Fabio Duranti e Daniele Capezzone invitano alla cautela e aprono una riflessione che affonda le sue radici a partire dal 2020.
“Caldo record. Triplicati i decessi. Circa 500 tra Milano e Roma” – è il ‘titolone’ che Fabio Duranti legge in diretta ai microfoni di Un Giorno Speciale, riferendosi alla prima pagina online del Corriere della Sera. L’immagine che accompagna l’articolo mostra una persona accaldata accanto a una fontana, in quella che sembra una rappresentazione quasi drammatica della situazione. Daniele Capezzone interviene con tono critico: “È lo stesso format dei morti di Covid: non “con” il caldo, ma “di” caldo”. Il parallelismo, provocatorio ma efficace, punta il dito sulla retorica emergenziale che rischia di trasformare una normale variazione climatica in panico diffuso.
Al centro della discussione c’è uno studio dell’Imperial College di Londra, secondo il quale tra il 23 giugno e il 2 luglio a Milano si sarebbero registrati 499 decessi in eccesso rispetto alla norma, di cui 317 attribuiti ai cambiamenti climatici di origine antropica. Tuttavia, secondo quanto fatto notare dal Senatore Claudio Borghi via X, la media storica nel capoluogo lombardo è di circa 40 al giorno, il che porterebbe a 360 morti attesi in quei nove giorni. Se i numeri dello studio fossero esatti, significherebbe che 859 persone sarebbero decedute in quel breve lasso di tempo, un’anomalia statistica che non ha trovato riscontro né in bollettini ufficiali né in segnalazioni da parte delle autorità sanitarie. Il Senatore della Lega riferisce inoltre: “Ho chiesto all’anagrafe di Milano, e per quei giorni risultano circa 360 decessi, perfettamente in media”.
Il cuore della riflessione si sposta dal merito della notizia al metodo con cui viene comunicata. “Il giornalismo è diventato la tecnologia della paura”, afferma Capezzone, ricordando come in passato l’informazione cercasse di rassicurare la popolazione nei momenti critici, mentre oggi sembra voler esasperare ogni rischio. Poi rincara la dose: “L’esperimento Covid ha funzionato: si è capito che con la paura le persone si spaventano, si adeguano, e in alcuni casi arrivano persino a cantare sui balconi. Quindi, ci riprovano”. Il riferimento è alla gestione comunicativa delle crisi, dove l’elemento emotivo spesso prevale su quello razionale, e l’ansia viene alimentata anche da immagini, titoli e grafiche drammatiche. È un meccanismo ben rodato, secondo Capezzone, che punta a generare conformismo e obbedienza piuttosto che informazione equilibrata.
Il punto sollevato da Duranti e Capezzone diventa, dunque, un richiamo al rigore nell’uso dei dati. Se lo studio in questione, come ammettono gli stessi autori, si basa su stime e non su dati Istat completi, forse sarebbe stato opportuno evitare di presentare quei numeri come certi e definitivi. La critica è anche verso il sistema mediatico che rilancia tali contenuti senza un adeguato lavoro di verifica. Il rischio, insomma, è che l’informazione diventi allarmismo e che il pubblico perda fiducia non solo nei media, ma anche nella scienza. La sfida, oggi più che mai, è tenere accese entrambe le luci: quella del controllo giornalistico e quella del senso critico collettivo.
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