Il conflitto fra Israele e Iran continua ad assumere tratti sempre più tragici. Nella mattinata di ieri, lo Stato ebraico ha ripreso gli attacchi su Teheran, principalmente nelle zone orientali e occidentali della capitale. Tra le zone interessate, l’area di Chitgar, il grande centro commerciale Iranmal, Shahrak Bagheri e i dintorni del quartiere olimpico, oltre ai palazzi della TV nazionale del regime sciita.
Inevitabilmente, è arrivata la reazione immediata dei Pasdaran. Infatti, come in mattinata le forze israeliane avevano invitato le popolazioni civili iraniane a evacuare le zone limitrofe alla capitale, allo stesso modo il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica ha diramato un avviso di evacuazione urgente in ebraico rivolto ai residenti di Tel Aviv. “Vi consigliamo di lasciare immediatamente la città per la vostra sicurezza” (Haaretz).
Da quanto filtrava, il comunicato sembrava preannunciare l’intenzione dell’Iran di sferrare nella notte “uno strike molto pesante” su Israele, in risposta agli ultimi attacchi subìti. Lo riferiva Fars News, agenzia legata alla stessa Guardia Rivoluzionaria, ripresa anche da Iran International, sito dell’opposizione iraniana in esilio con sede a Londra. Secondo queste fonti, l’obiettivo era quello di sferrare il colpo di risposta più duro dall’inizio “dell’aggressione sionista”. A prescindere dall’entità, questo è effettivamente accaduto, in un’offensiva che è andata avanti per tutta la notte.
In diretta su “LAVORI IN CORSO” la giornalista iraniana Hana Namdari (“Independent Persian“), ha dato la sua visione del conflitto, denunciando al tempo stesso gli abomini del regime sciita oltre che la strana connivenza di una certa narrazione occidentale.
“Come mai l’Occidente non ascolta il popolo iraniano?” — è la domanda che Namdari rilancia con forza. Da anni, racconta, gli iraniani gridano al mondo il male che subiscono: “Il regime islamico non è un serpente, è un polpo con tentacoli ovunque. Un cancro che deve essere eliminato”.
Secondo la giornalista, il mondo continua a confondere la questione di Gaza con quella dell’Iran: “Sono due cose completamente diverse. Ma il regime sfrutta tutto, arma Hamas, arma Hezbollah. E intanto tiene il suo popolo sotto terrore da 47 anni”.
Namdari è netta: “Io ho vissuto trent’anni in Iran. A scuola ci portavano a gridare ‘Morte a Israele, Morte all’America’. Tutti quelli che non accettano l’esistenza del regime devono morire, questo è il messaggio“. E poi aggiunge, con rabbia e dolore: “Dell’Iran io sono fiera. Ma questo regime lo ha ucciso“.
A farne le spese è un paese ricco, soffocato da un’élite religiosa che “domina ogni cosa: cultura, morale, economia“. Una ricchezza che non arriva al popolo: “Lo stipendio di mia madre è lo stesso da 15 anni, ma oggi un euro vale 93.000 toman. Nel 2010 ne bastavano 1.500. Questo è il risultato della loro gestione“.
Il tono si fa drammatico quando Namdari racconta della madre, rimasta in Iran: “Io sono qui, preoccupata per lei. Lei mi dice: ‘Questa non è vita, svegliarmi da sola, ammalarmi da sola, vivere senza i miei figli. Questa è la morte. Che venga una guerra, almeno servisse a qualcosa’“.
Il paradosso è potente: “Il popolo iraniano vive già in guerra. Senza corrente, con ponti che crollano, autostrade insicure, repressioni continue. Ora che le bombe cadono, per molti è quasi una passeggiata. Perché lo Stato ci uccideva già ogni giorno“.
Il momento più agghiacciante arriva quando Namdari racconta una pratica brutale e poco nota: “Secondo la legge islamica, una vergine non può essere impiccata. Quindi, prima di giustiziarle, le stuprano. Le sposano la notte prima per ‘poterle’ uccidere. È un doppio abominio, usano la religione per giustificare la violenza“.
E continua: “Viviamo nel terrore. Eppure ancora oggi tanti in Occidente difendono quel regime. Invito chiunque lo sostenga ad andare in Iran un mese, non un anno. Con le loro regole. Ne uscirebbe distrutto“.
Per Namdari, però, qualcosa è cambiato in modo irreversibile: “Il regime ha fatto un solo favore al popolo: ha reso impossibile tornare indietro. Gli iraniani non accetteranno mai più una teocrazia. Hanno visto troppo dolore in nome della religione“.
Anche se il rischio, secondo lei, è la successione dinastica: “Potrebbe arrivare il figlio di Khamenei, Mojtaba“.
Il finale dell’intervento è struggente: “Io ho la mia vita dentro al telefono. Mia madre, la mia casa, il mio passato. Voi potete uscire e vedere i vostri cari. Noi li vediamo da uno schermo“.
E lancia un monito ai benpensanti europei: “Chi difende il regime, vada a viverci. Noi non chiediamo guerra, non l’abbiamo mai voluta. Ma non abbiamo più niente da perdere. E per la prima volta, la guerra non ci fa più paura. Il terrore, noi, lo conosciamo da 47 anni“.
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