Nel panorama del giornalismo italiano, pochi hanno saputo raccontare e interpretare la storia nazionale come Indro Montanelli. Figura centrale del Novecento, Montanelli fu testimone diretto della Resistenza e della nascita della Repubblica, ma il suo sguardo sul 25 aprile, la Festa della Liberazione, è sempre stato segnato da un profondo disincanto e da una lucida autocritica verso il Paese e la sua memoria collettiva.
Va chiarito che Indro Montanelli non ha mai negato di aver seguito una bandiera piuttosto che un’altra in un particolare momento della sua gioventù. Quello che però in pochi ricordano è che, oltre a non aver mai sconfessato il periodo di adozione al regime, si dichiarò “categorico antifascista” a partire dal 1940, per giunta in via ufficiale.
“L’Italia è un paese di contemporanei. Senza antenati né posteri, perché senza memoria”, confidava Montanelli ad Alain Elkann in una delle celebri interviste dedicate alla storia repubblicana. In queste conversazioni, il giornalista non nascondeva la sua amarezza per la difficoltà degli italiani di fare i conti con il proprio passato: “Perché un paese che ignora il proprio ieri … non può avere un domani.”
Montanelli, che visse in prima persona la stagione della guerra civile e della Resistenza, non si è mai riconosciuto nella retorica celebrativa del 25 aprile. Anzi, sottolineava spesso come la narrazione ufficiale rischiasse di trasformare una pagina complessa e dolorosa in un mito consolatorio, utile più a dividere che a unire.
In “Storia d’Italia”, curata con Mario Cervi e arricchita dalle interviste di Elkann, Montanelli ribadiva: “Nessuno di noi la strada della ribellione la batté sino in fondo, come voleva Ricci: per la semplice ragione che si trattava di una strada che fondi non ne aveva. Qualcuno poi scantonò in questo o in quello dei sette o otto partiti che aprirono le porte a questa generazione perduta. E forse si illuse di aver trovato un’altra bandiera. Io sono tra i rassegnati: so benissimo che di bandiere non posso averne altre e che l’unica che seguiterà a sventolare sulla mia vita è quella che disertai, prima che cadesse.”
Questa autocritica, che non risparmia nemmeno se stesso, si accompagna a una visione disillusa della società italiana: “Noi italiani non crediamo in nulla e tanto meno nelle virtù che qualcuno ci attribuisce. Ma tra di esse ce n’è una nella quale riponiamo una fede incorruttibile: quella della nostra capacità di corrompere tutto.”
Per Montanelli, il 25 aprile non è mai stato una semplice festa, ma piuttosto una data da interrogare, un’occasione per riflettere sulle responsabilità collettive e sulle omissioni della memoria nazionale. La sua testimonianza, raccolta da Elkann, resta un monito: “Noi qui buttiamo tutte le colpe addosso agli altri. Ma bisogna fare i conti anche col popolo italiano. Siamo noi che li abbiamo eletti questi signori. Sono mica piovuti dalla luna. E allora non accaniamoci soltanto sulla classe politica. Noi siamo un elettorato disposto a ogni sorta di transazione, quando ci fa comodo.”
E poi il lato più in ombra della ricorrenza: “Chiamiamola col suo nome, la resistenza fu una guerra civile tra italiani, non tra partigiani e tedeschi: la prova sta nel fatto che quel periodo bruttissimo continuò anche dopo la fine della guerra, a dimostrazione che la guerra non era stata ai tedeschi, era stata ad altri italiani“.
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